E
come Kazuko Okakuro, l’autore del “Libro del tè”,
che si addolorava per la rivolta delle tribù mongole nel XIII
secolo, non perché avesse causato morte e afflizione, ma perché
aveva distrutto l’arte del tè, il più prezioso tra i frutti della
cultura Song, anch’io so bene che il tè non è una bevanda
qualunque.
Quando
diventa rituale, rappresenta tutta la capacità di
vedere la grandezza nelle piccole cose.
Dove
si trova la bellezza?
Il
rituale del tè, quel puntuale rinnovarsi degli stessi gesti e della
stessa degustazione, quell’accesso a sensazioni semplici,
autentiche e raffinate, quella libertà concessa a tutti, a poco
prezzo, di diventare aristocratici del gusto, perché il tè è la
bevanda dei ricchi così come dei poveri, il rituale del tè, quindi
ha la straordinaria virtù di aprire una breccia di serena armonia
nell’assurdità delle nostre vite.
Sì,
l’universo tende segretamente alla vacuità, le anime perdute
rimpiangono la bellezza, l’insensatezza ci accerchia. Allora
beviamo una tazza di tè.
Scende
il silenzio, fuori si ode il vento che soffia, le foglie autunnali
stormiscono e volano via, il gatto dorme in una calda luce. E a ogni
sorso il tempo si sublima.
[Tratto
da L’eleganza del riccio
di Muriel Burbery]
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