Le favole indiane più antiche sono già presenti nel “Mahabharata” tra le molteplici storie che contiene. E così mentre Yudhisthira, uno dei cinque fratelli Pandava, eroi del “Mahabharata”, si chiede quale comportamento debba adottare un sovrano povero di risorse, viene introdotto un dialogo tra il Gange e l’Oceano che rispecchia esattamente la favola dell’ulivo e della canna in Esopo:
“Caro sposo Oceano – disse la dea Gange – gli alberi si innalzano superbi nella loro posizione, e quando viene la mia piena si oppongono presuntuosi alla corrente: è proprio per questa loro resistenza che devono poi abbandonare la propria sede. La canna invece, se vede avvicinarsi la piena, la sa accogliere, e accetta di piegarsi. Così, quando la piena è passata, eccola di nuovo salda al suo posto. La canna sa riconoscere il tempo giusto, non è mai superba, sa accettare anche gli eventi negativi, non dispera mai e conosce l’umiltà. Ecco perché non viene trascinata via”.
Ma è il successivo “Panchatantra” a rappresentare, senza dubbio, una delle raccolte di favole più famose, sia nel suo paese di origine che altrove. Messo per iscritto ad una data incerta, tra il I e il VI secolo d.C., il libro aveva lo scopo di iniziare i giovani principi all’esercizio del potere. L’introduzione narra di un re che aveva tre figli svogliati e indolenti. Di fronte alla sua preoccupazione, un consigliere gli raccomandò di rivolgersi ad un saggio brahmano. Quest’ultimo, Vishnusharma chiamato anche Pilpay, accettando la missione che gli stava affidando il re, affermò che giorno dopo giorno, in capo a sei mesi, i tre figli sarebbero divenuti ‘uomini senza pari nella scienza del governo’. Così compose proprio per loro il “Panchatantra”, il cui metodo – istruire divertendo attraverso un’affascinante sequenza di favole sulle diverse filosofie della vita – diede ottimi frutti.
La storia del vecchio Markandeya Dal Mahabharata, imponente poema epico della letteratura sanscrita, in massima parte metrico– India.
Gli animali, gli uomini e la gratitudine Dal Panchakhjanaka, ‘manuale composto da cinque racconti’ opera di letteratura antica jaina.– India
L’Oceano, la sua sposa, l’albero e la canna Dal Mahabharata, imponente poema epico della letteratura sanscrita, in massima parte metrico. – India
Gli elefanti volanti Orissa – India
La scatola delle elemosine Dal Panchakhjana Vartika, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto gujarati. – India
Il gomitolo di cotone Sri Lanka
La forza della lealtà Dal Panchakhjana Hitopadesha, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto hindi – India
Il mago imbroglione Nepal
Sakdal, il ministro del re Dal Suva Bahuttari Katha, ‘I 72 racconti del pappagallo’, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto gujarati – India
La zia della tigre Dal Panchakhjana Vartika, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto gujarati – India
La Valle dei Demoni Rajastan – India
Il sogno e la realtà Sri Lanka
Il chicco di grano perduto Nepal
Il dono del cobra Dal Panchakhjana Vartika, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto gujarati – India
L’unione fra amici
- Il corvo, Il topo e la tartaruga
- L’eremita e il topo
- La donna che voleva scambiare i semi di sesamo
- Storia dello sciacallo ingordo
- Il figlio del droghiere
- Somilak il tessitore
- Il bue e lo sciacallo
- Somilak alla ricerca del suo destino
- Il cervo in fuga
1. IL CORVO, IL TOPO E LA TARTARUGA
Vicino alla città di Mahilaropya, nel sud dell’India, c’era un grande albero di banyan: moltissimi uccelli si cibavano dei suoi frutti e nel cavo del tronco vivevano molti vermi e insetti. Quelli che passavano di lì, animali e uomini, si fermavano volentieri a riposare sotto la sua grande ombra.
Lì viveva il corvo chiamato Laghupatnak. Un giorno, mentre volava sui dintorni della città, vide un uccellatore che si avvicinava al grande banyan; aveva con sé una rete, quindi non aveva buone intenzioni. Il corvo temette per la vita degli uccelli che vivevano sull’albero e tornò subito lì per avvertirli dell’arrivo dell’uccellatore.
“L’uccellatore sta per spargere granaglie intorno all’albero per intrappolarvi. Non cadete nella trappola!”
L’uccellatore arrivò presso l’albero, sparse intorno le sue granaglie e si nascose dietro un cespuglio.
Ma gli uccelli non si mossero e non mostrarono interesse per il cibo. Proprio in quel momento arrivò Chitagreeva, il re dei piccioni, in compagnia dei suoi. Laghupatnak lo mise in guardia ma quello non prestò ascolto ai suoi avvertimenti. Così tutti i piccioni restarono intrappolati nella rete dell’uccellatore. E quando lui li vide intrappolati si avvicinò per catturarli. Chitragreeva disse agli altri piccioni di restare calmi, poiché solo chi è dotato di una intelligenza che non si lascia turbare può affrontare con successo le calamità. Così Chitragreeva disse ai colombi di volare via insieme alla rete.
“Cercherò di liberarvi dalla rete – disse – non appena vi allontanerete e sarete fuori dalla vista dell’uccellatore”.
I piccioni seguirono le sue istruzioni. L’uccellatore li seguì, pensando che prima o poi i piccioni avrebbero cominciato a litigare fra di loro e sarebbero venuti giù. M non andò così e l’uccellatore dovette tornarsene a casa scornato. Non solo non aveva preso uccelli, ma aveva perso anche la rete, che era il suo mezzo di sopravvivenza.
Quando Chitragreeva vide che l’uccellatore aveva smesso di inseguire i suoi compagni li avvertì di dirigersi verso Mahilaropya, nel luogo dove viveva il suo amico Hiranyak il topo, che li avrebbe liberati dalla rete tagliandola con i suoi denti aguzzi.
Hiranyak il topo viveva al sicuro nella sua tana, che aveva un migliaio di aperture e somigliava a una fortezza. Avvicinatosi alla tana, Chitragreeva chiamò Hiranyak e appena lui sentì il richiamo venne fuori. Hiranyak voleva liberare subito Chitragreeva, ma lui gli disse di liberare prima gli altri piccioni.
“Hiranyak – disse – in quanto re ho la responsabilità dei miei sudditi. Supponi che liberandomi i tuoi denti si rompano, i miei sudditi resterebbero intrappolati. E se accadesse una cosa simile io andrei all’inferno”.
Hiranyak apprezzò molto il senso di responsabilità e del dovere del suo amico. Liberò gli altri colombi e solo alla fine liberò Chitragreeva.
Laghupatnak il corvo volava attorno ai colombi intrappolati, curioso di vedere come sarebbe andata a finire. Fu stupito di vedere i piccioni liberati dalla rete e rimase ben impressionato da Hiranyak, così da voler diventare suo amico. Quindi lo chiamò per nome imitando la voce di Chitrageeva, e il topo credette che forse l’amico piccione lo stesse chiamando di nuovo. Strisciò fuori dalla tana , ma non appena si accorse che si trattava di un altro chiese: “Chi sei?”
Laghupatnak si presentò ed espresse il desiderio di fare amicizia con lui. Ma Hiranyak rifiutò l’amicizia per via dell’avversione naturale che esiste tra un corvo e un topo.
Allora il corvo gli disse:
“Le persone istruite diventano amiche non appena recitano sette versi insieme o se fanno insieme sette passi. Sono venuto qui per essere tuo amico; se non mi accetti come tale, dimmi almeno che ti va di parlare con me ogni volta che verrò a trovarti. Mi basterà solo questo.
Considerandolo un grande erudito, alla fine il topo accettò di diventare amico del corvo, ma gli proibì di entrare nella sua tana. Il corvo si disse d’accordo.
In poco tempo diventarono grandi amici: conversavano insieme, si scambiavano il cibo, e così via. E tuttavia la loro amicizia era ancora superficiale. Dopo alcuni giorni il topo aveva preso confidenza col corvo al punto da parlargli standosene tranquillamente seduto all’ombra delle sue ali aperte.
Un giorno, con le lacrime agli occhi, Laghupatnak disse ad Hiranyak:
“Amico mio, non posso più fermarmi qui; sono deluso di questo posto”
Hiranyak gli chiese il motivo della sua disillusione. Lui disse che ogni tanto lì c’era carestia e lui si trovava in seria difficoltà per riuscire a sopravvivere. Hiranyak gli chiese dove avesse intenzione di andare. E il corvo gli disse: “La mia grande amica Mantharak, che è una tartaruga, vive in un profondo lago pieno d’acqua, che è situato in una folta foresta. Mantharak mi fornirà ogni giorno di pesce e io lì starò davvero bene”.
Anche il topo espresse il desiderio di andare con lui, dicendogli che anche a lui toccava fare severi digiuni. Laghupatnak era davvero contento della cosa ma non sapeva come poteva portarlo con sé:
“Tu non sai volare, come potrai venire insieme a me?”
Il topo gli chiese di caricarselo sul dorso. Laghupatnak andava molto fiero della sua abilità nel volo, quindi accettò di caricarsi il topo sulle spalle. Hiranyak si arrampicò agilmente e Laghupatnak si alzò in volo in direzione del lago dove viveva la sua amica Mantharak.
Quando Mantharak vide quello strano corvo che portava sulle spalle un topo si spaventò ed entrò in acqua. Laghupatnak depositò il topo nel cavo di un albero e andò a trovare Mantharak, chiamandola. Mantharak riconobbe la voce dell’amico e venne fuori dall’acqua. Entrambi erano molto contenti di rivedersi. La tartaruga gli chiese del topo.
“Chi era quel topo che se ne stava sulle tue spalle? Essendo il topo un nemico naturale del corvo, come mai sei in amicizia con lui?”
Laghupatnak raccontò alla tartaruga che quello era il suo amico Hinanyak, che arrivò proprio in quel momento, salutò la tartaruga e se ne stette tranquillo lì. Il corvo presentò il topo alla tartaruga dicendo:
“Hiranyak, apparentemente così piccolo, ha davvero molte qualità. Anche lui è rimasto deluso come me”.
Mantharak chiese il motivo della sua delusione e Hiranyak le raccontò la storia dell’eremita.
L’eremita e il topo
Nella città di Mahilaropya c’era una volta un tempio dedicato al signore Mahadeva; lì viveva un eremita di nome Tamrachud. Ogni giorno andava a chiedere l’elemosina per le strade e i vicoli della città. E ogni giorno raccoglieva abbastanza per togliersi la fame. Ogni giorno, dopo aver mangiato una razione di cibo sufficiente per sfamarsi, appendeva in alto quel che restava, fuori della portata di cani e gatti. E la mattina dopo lo dava ai suoi servitori e ai suoi fedeli. A quel tempo anch’io – continuò il topo – vivevo in quel tempio e un giorno i miei amici mi dissero di quel cibo che l’eremita sistemava in alto per sicurezza. Essi chiesero di aiutarli a prendere quel cibo. Andai con loro sul posto e con un solo balzo raggiunsi il nascondiglio e presi il cibo. Lasciai che i miei amici si sfamassero per primi e poi ne mangiai un po’ anch’io. E da allora diventò un’abitudine.
Quando l’eremita se ne accorse si procurò una canna di bambù e prese a battere sulla ciotola dove conservava il cibo, anche quando dormiva. Così ci impauriva e noi non potevamo più mangiare di quel cibo.
Un giorno un amico di Tamrachud, che si chiamava Vrihatspik venne a trovarlo. Era in pellegrinag-gio e Tamrachud lo trattò benissimo. Durante la notte l’amico cominciò a predicare su vari argomenti religiosi. Ma l’intera attenzione di Tamrachud era concentrata sulla protezione del suo cibo. E quando l’amico si rese conto che non lo ascoltava attentamente, si arrabbiò e disse:
“Tamrachud! Mi rendo conto che non sei degno di essere considerato un amico e che sei un arrogante”
Tamrachud si innervosì parecchio per quel fraintendimento e gli spiegò la vera ragione della sua apparente disattenzione.
“Amico, questi topi mi danno molto fastidio. Per quanto metta in alto la ciotola, si mangiano il mio cibo. Quindi cerco di scacciarli facendo rumore con questa canna di bambù”.
Vrihastapik gli chiese se sapeva dov’era la tana del topo. E quando l’altro gli disse che non lo sapeva disse che i topi dovevano sicuramente stare da qualche parte vicino al deposito dove venivano conservati i gioielli e gli ornamenti della divinità del tempio.
“Ecco perché i topi possono saltare e arrivare così in alto: l’energia vitale che emana dalle cose preziose aumenta notevolmente l’ardore e la radianza di un essere vivente”.
E a quel punto gli raccontò la storia della donna chiamata Shandili, che aveva scambiato i suoi semi di sesamo già vagliati con altri ancora da ripulire. Tamrachud si stupì poiché quello strano scambio gli sembrava una pazzia. Era proprio curioso di conoscere la storia.
La donna che voleva scambiare i semi di sesamo
Una volta – raccontò l’amico dell’eremita – sono andato a presenziare ad alcuni riti religiosi. Era la stagione delle piogge e un bramino mi offrì di alloggiare in casa sua per quanti giorni volessi.
Stavo dunque in quella casa, assorto nell’adorazione delle divinità. Una mattina, sentii il bramino che diceva a sua moglie:
“Domani è il giorno di Dakshinayan-Sankranti, che è il giorno più adatto per fare donazioni. Ho deciso di andare al villaggio vicino a chiedere elemosine. Anche tu dovresti dare da mangiare a un bramino”.
La moglie del bramino si irritò molto perché in casa non c’era niente.
“E’ stata la mia sfortuna sposarmi con te. Mai ho conosciuto un po’ di gioia dal giorno che ti ho sposato!” – gridò la donna.
Ma il bramino la convinse dell’importanza delle donazioni fatte nel giorno di Dakshinayan Sanskranti. E la mise in guardia sulle conseguenze negative del desiderio eccessivo.
Le raccontò la storia dello sciacallo ingordo.
Storia dello sciacallo ingordo
In una regione boscosa viveva un cacciatore. Un giorno, andando a caccia, vide un grosso cinghiale e lo uccise con le sue frecce. Ma prima di morire il cinghiale lo aveva attaccato con rabbia e lo aveva ferito seriamente, aprendogli la pancia. Così entrambi morirono delle rispettive ferite.
Subito dopo arrivò uno sciacallo che vagava nei dintorni in cerca di cibo e fu davvero felice di trovare quei due corpi morti. Pensò che Dio gli avesse fatto davvero una grazia.
Ma proprio lì sorse il suo problema. L’arco del cacciatore era lì abbandonato. Lo sciacallo voleva raccattare tutto quello che aveva trovato. Anche la corda dell’arco gli sembrava un buon bottino e cercò anzi di addentarla per prima. L’arco era ancora tese e aveva ancora una freccia incoccata, pronta a partire. E non appena lo sciacallo addentò la corda l’arco scattò e la freccia lo colpì alla testa. Così morì lo sciacallo ingordo.
La storia aiutò la moglie del bramino a capire meglio. Decise che l’indomani avrebbe fatto la sua donazione. Scelse di donare un dolce detto laddus, fatto di piccole palle di semi di sesamo mescolato con zucchero di canna. Contento della decisione presa dalla moglie, il bramino andò via.
La donna immerse i semi di sesamo nell’acqua, quindi li mise ad asciugare al sole. Ad un tratto un cane arrivato da chissà dove si avvicinò e pisciò sui semi di sesamo. La cosa dispiacque molto alla moglie del bramino. Così decise di barattare i semi con qualcuno. Ma non trovò nessuno disposto a scambiare il suo sesamo già lavato con del sesamo non lavato.
Andò a chiedere lo scambio nelle stesse case dove già io aveva chiesto l’elemosina. Una delle donne interpellate sembrava ben disposta a scambiare sesamo non lavato con sesamo già ripulito, convinta di potersi risparmiare il lavoro, ma suo figlio la fermò dicendole:
“Madre, secondo le leggi dello stato di Kamand non è possibile scambiare semi di sesamo non lavati con semi di sesamo già lavati. Ci deve essere un motivo per proporre un simile scambio!”
La madre intuì la cosa e si rifiutò di scambiare i suoi semi di sesamo non lavati con quelli già lavati della moglie del bramino.
Finita la sua storia, Vrihastpik chiese a Tamrachud se si fosse almeno reso conto della strada seguita dal topo per raggiungere il cibo. Tamrachud disse che il topo non era solo ma arrivava in compagnia di altri topi. Vrihastpik a quel punto chiese di procurargli una vanga e disse:
“Domani mattina presto, prima che la gente si alzi, seguiremo le tracce dei topi e scopriremo la tana dove abitano”.
Disse a quel punto Hiranyak: “Ero davvero stupito per la sua intelligenza, ma ero anche preoccupato di mettermi in salvo. Così insieme ai compagni decidemmo di abbandonare la tana e uscimmo. Ma appena usciti dalla tana, un gatto ci piombò addosso e uccise molti topi. Qualcuno dei miei compagni tornò indietro, maledicendomi. Altri erano seriamente feriti. E anch’io dovetti tornare nella tana.
Vrihastpik aveva seguito le tracce di sangue e aveva scoperto la tana. Aveva preso il gioiello col quale ero solito dilettarmi e che mi aveva permesso di fare quei salti incredibili.
Quando lui se ne andò dopo aver rovistato la tana, qualcuno dei miei compagni era ancora lì. E di notte avevano ripreso come al solito a saltare nella ciotola. Tamrachud se ne accorse e ricominciò a battere con la canna di bambù; ma Vrihastpik gli disse di non preoccuparsi perché ciò che permetteva ai topi di fare quei salti straordinari era stato eliminato.
Era vero. Per quanto cercassi di raggiungere la ciotola, tutti i tentativi andavano a vuoto. Per cui i miei compagni mi tolsero il rispetto che avevano nei miei confronti e mi abbandonarono dato che ero ridotto in miseria. Così decisi di riprendermi il gioiello di cui si era impossessato Tamrachud. Lui lo teneva in una scatola che usava come capezzale quando dormiva. Mi avvicinai mentre lui dormiva e cominciai a rosicchiare la scatola. Il rumore lo svegliò e mi picchiò col bambù, ma per fortuna ne uscii illeso.
Finita la storia Hiranyak disse:
“Uno può essere certo di avere quel che è scritto nel suo destino. Neppure gli dei possono cambiarlo. Per cui nulla mi preoccupa o mi meraviglia, dato che quel che trovo mi appartiene per via del destino e nessuno potrà cambiarlo”.
Il corvo e la tartaruga, incuriositi, chiesero: “Come sarebbe a dire?”
Allora Hiranyak raccontò loro la storia del figlio del droghiere.
Il figlio del droghiere
Viveva in una città un droghiere chiamato Sagardutt. Un giorno, suo figlio comprò per cento rupie un libro nel quale era scritta una sola frase in una lingua molto antica:
praptvyamartham labhate manushyam
Significava: “un uomo ottiene che è scritto nel suo destino”.
Sagardutt si arrabbiò molto perché suo figlio aveva speso tanto per comprare quel libro che conteneva un’unica frase; lo sgridò dicendogli che non sarebbe mai riuscito a guadagnare denaro nella sua vita e lo cacciò via di casa.
Il figlio se ne andò in un’altra città e si fermò a vivere lì. A chiunque gli chiedesse chi fosse era solito rispondere sempre con la stessa risposta: Praptvyamartham labhate manushyam, un uomo ottiene quello che è scritto nel suo destino. Così presero a chiamarlo Praptvyamarth.
Un giorno una principessa venuta per partecipare a una festa lo vide e rimase infatuata dal suo brillante e bell’aspetto. Si confidò con un’amica e questa andò da Praptvyamarth a dirgli dei sentimenti che la principessa sentiva nei suoi confronti. Gli disse anche che lei era decisa a morire se lui non l’avesse incontrata. Praptvyamarth chiese come poteva incontrarla. E l’amica gli disse:
“Va al palazzo di notte. Troverai una corda che pende: arrampicati alla corda e ti troverai dentro il palazzo”.
“Molto bene”, disse Praptvyamarth.
Tuttavia, quando lei se ne andò, pensò che non sarebbe stata una buona azione, poiché “uno che fa l’amore con la moglie del maestro, o dell’amico, o del suo signore o di un suo assistente, va all’inferno”.
Ma l’incontro con la principessa era nel suo destino. Girando intorno senza una meta precisa, capitò vicino al palazzo e vide una corda che pendeva. Si arrampicò per la corda e quando la principessa lo vide ne fu felicissima. Lo trattò con grande rispetto e lo fece sedere sul suo letto, dicendo:
“Fin dal giorno in cui ti ho visto, ti ho scelto come sposo. Non posso neppure pensare di sposare un altro”.
Praptvyamarth non disse niente. La principessa insisteva perché dicesse qualcosa. E lui le ripeté la solita frase:
“Un uomo ottiene quel che sta scritto nel suo destino”
La principessa pensò che forse si trattava di un’altra persona. E lo congedò.
Procedendo sulla strada, Praptvyamarth vide un vecchio tempio e sentendosi stanco si addormentò lì. Per caso, un ufficiale della polizia locale venne in quel tempio per incontrare la sua amata. Vedendo il giovane che dormiva, temendo che la tresca venisse scoperta, gli disse di andare a dormire nel suo letto. Praptvyamarth se ne andò, ma finì per sbaglio in un altro letto.
La figlia del poliziotto, Satyavati, dormiva anche lei su quel letto e aspettava il suo amante. Credette che lui fosse finalmente arrivato e ne fu felice. Ma l’altro se ne stava zitto. Quando lei lo costrinse a dire qualcosa, disse:
“Un uomo ottiene quel che sta scritto nel suo destino”
Lei si arrabbiò e lo buttò fuori. Camminando a caso, Praptvyamarth vide un corteo nuziale e si unì al gruppo. Non appena il corteo nuziale arrivò alla casa della sposa, sopraggiunse un elefante imbizzarrito e tutti corsero via per mettersi in salvo. Praptvyamarth, pensando che la sposa fosse sola si preoccupò di proteggerla. Tenendola per mano, le disse di non aver paura. Arrivò all’improvviso l’elefante e lui gli urlò contro. Per fortuna l’elefante se ne andò.
Non appena l’elefante scomparve lo sposo tornò con tutto il corteo appresso. E vedendo quello sconosciuto che teneva la sua sposa per mano disse al padre della sposa:
“Hai promesso a me tua figlia in sposa. Chi è quel tipo che la tiene per mano?”
Il padre chiese alla figlia e lei disse che si trattava del suo salvatore e che si sarebbe sposata con lui.
“Non sposerò mai uno che è scappato lasciandomi morire” – disse la sposa.
Tutti si commossero. Il re passava di lì accompagnato dalla principessa. Chiese a Praptvyamarth di raccontare cos’era successo. Lui disse:
“Un uomo ottiene e quel che è scritto nel suo destino”
La principessa ci pensò su un momento e disse:
“Neppure Dio può cambiare questo”
E la figlia del poliziotto disse:
“Ecco perché niente mi rende afflitta e di niente mi stupisco”.
Infine la promessa sposa disse:
“Ciò che è mio nessun altro lo può reclamare”.
Il re chiese allora alla gente che si era radunata lì di raccontare separatamente la rispettiva storia. Quando cominciò a rendersi conto dei fatti si compiacque con Praptvyamarth e gli diede in sposa la principessa sua figlia. Praptvyamarth fece venire i suoi congiunti e visse felice.
Dopo aver raccontato questa storia Hiranyak disse:
“Un uomo ottiene quel che è scritto nel suo destino. Forse era nel mio destino rimanere deluso di questo mondo e questo amico mi ha condotto da te”.
Disse allora Mantharak la tartaruga:
“Di sicuro Laghupatnak il corvo è tuo amico se, nonostante fosse affamato, non ti ha mangiato”
Mantharak suggerì ad Hiranyak di vivere vicino al lago, mettendo da parte le sue preoccupazioni e i suoi crucci.
“Ricchezza, giovinezza, moglie e cereali stagionati non potrai averli per sempre”
E raccontò la storia di Somilak, un folle che non poté godere della sua ricchezza perché non era nel suo destino.
Hiranyak era curioso di conoscere quella storia.
Somilak il tessitore
C’era una volta un tessitore chiamato Somilak. Nonostante fosse un abile tessitore non riusciva ad avere la remunerazione e il rispetto che si sarebbe aspettato. Un giorno disse a sua moglie che, visto che il lavoro non gli dava soddisfazione, sarebbe andato a cercar fortuna da un’altra parte.
“Il tessitore meno capace di me – disse - è diventato ricco, mentre io che sono più bravo di lui nel lavoro resto povero”.
La moglie non era d’accordo e disse che forse restare povero era nel suo destino. Stava evidentemente cogliendo i frutti delle sue vite passate. La sua decisione di andare altrove non le sembrava giusta. Ma il tessitore aveva ormai deciso. Così un giorno se ne andò in un’altra città chiamata Vardhamanpur. Ci rimase per tre anni e guadagnò trecento monete d’oro. A quel punto decise di tornare a casa.
Mentre attraversava una foresta si fece buio; si arrampicò su un albero di banyan e cadde addormentato. Ebbe un sogno e nel sogno c’erano due uomini che parlavano tra di loro.
“Mio caro Kartah – diceva uno – sai bene che nel destino di questo Somilak c’è solo la ricchezza che gli è necessaria per sopravvivere. Quindi perché gli hai dato trecento monete d’oro?”
E l’altro uomo replicava: “Karman, il mio compito è quello di procurare ricchezza a una persona laboriosa. Dipende solo da te, se il denaro resterà o no in suo possesso”.
Somilak uscì dal sogno. E si accorse che le trecento monete erano svanite nel nulla. Diventò molto triste e anziché tornare nella sua città decise di tornare indietro. Nel giro di un anno guadagnò cinquecento monete d’oro. E di nuovo decise di tornare a casa. Per la paura di perdere il suo denaro continuò a camminare senza fermarsi. Passando attraverso quella stessa foresta incontrò due persone che somigliavano molto a quelle viste nel sogno.
Uno di loro diceva:
“Kartah, perché gli hai dato cinquecento monete d’oro? Come se non sapessi che nel suo destino c’è solo quel tanto che gli serve per sopravvivere”.
L’altro disse:
“Karman, il mio compito è quello di procurare ricchezza a un uomo laborioso. Che lui se la tenga o la perda dipende da te.”
Sentendo la conversazione fra i due, Somilak si spaventò e controllò il fagotto per accertarsi se ci fossero ancora le monete. Svanite nel nulla anche stavolta!
Disgustato della cosa, Somilak decise di togliersi la vita. Si avvicinò ad un albero e proprio mentre stava per stringersi la corda al collo udì una voce:
“Somilak! Non toglierti la vita. Sono io che ho preso i tuoi soldi. Non voglio che tu abbia niente più di quello che basta per sopravvivere. Torna a casa, è meglio. Ma poiché hai avuto ancora la fortuna di vedermi puoi chiedermi un dono”
Somilak voleva indietro le sue monete d’oro, ma la voce invisibile gliele rifiutò dicendo:
“Tu non sei destinato a godere della ricchezza. Che cos’altro posso regalarti?”
Somilak provò ad insistere:
“Anche se uno è nato in una casta bassa o viene abbandonato dagli altri, se è ricco la gente lo servirà. Non fa nessuna differenza per loro, anche se si tratta di un miserabile. Amico, io ho visto gli sciacalli che aspettavano la caduta dei testicoli di un bue, per ben quindici anni!”
Incuriosita la voce invisibile chiese:
“Cos’è questa storia?”
E Somilak gliela raccontò.
Il bue e lo sciacallo
C’era una volta un bue chiamato Tekshnavishan. Era fiero della sua forza fino all’arroganza. Viveva separato dal suo armento. Un giorno stava pascolando sulla riva di un fiume. Uno sciacallo stava lì insieme alla moglie. Vedendo i grandi testicoli del bue la moglie dello sciacallo disse al marito:
“Guarda, quelle due pingui parti del bue presto cadranno; seguiamolo!”
Lo sciacallo non era del tutto certo della faccenda. Disse che forse era meglio starsene lì ad aspettare che i topi venissero a bere. La moglie disse che era stanca di dover mangiare ogni giorno carne di topo. E cercò ancora di spingerlo a seguire il bue. Lo sciacallo non seppe opporsi alle pressioni della moglie e si mise a seguire il bue insieme a lei. Aspettando che i suoi testicoli cadessero, lo seguirono per quindici anni.
Ma la cosa non si avverò. A quel punto, vista la vana attesa, lo sciacallo propose alla moglie di tornare indietro. Capendo finalmente l’inutilità degli sforzi, lasciarono il bue.
Somilak alla ricerca del suo destino
Conclusa la storia, Somilak disse che proprio per questo la gente era disposta a servire una persona ricca, anche se si trattava di un miserabile.
La voce invisibile suggerì a Somilak di tornare a Vardhamanpur, dove avrebbe incontrato due figli di un droghiere. I loro nomi erano Guptadhan e Upabhuktadhan. Doveva cercare di capire la sua reale natura e allora sarebbe stato certo di ricevere qualunque cosa avesse chiesto.
Somilak tornò a Vardhamanpur. E prima di tutto si recò a casa di Guptadhan. Costui lo trattò male e lo mandò via di casa. Somilak entrò lo stesso a forza nella sua casa. Di notte, mentre Guptadhan cenava con la sua famiglia, diede sgarbatamente un po’ di cibo a Somilak. Lui lo gradì lo stesso, mangiò e se ne andò a dormire.
A mezzanotte sentì una voce. Cercò di capire cosa diceva.
“Kartah! – diceva la voce – hai causato eccessive spese a Guptadan. Deve dare da mangiare a Somilak. Come potrà mai rifarsi?”
L’altra voce rispose:
“Karman, il mio compito è quello di far bene alla gente. Il resto è nelle tue mani”.
Quando la mattina Guptadhan si svegliò si sentì male e dovette digiunare per tutto il giorno, per via di un’indigestione. In quel modo si ripagò delle spese. Allora Somilak andò a casa di Upabhuktadhan, dove venne accolto benissimo e trattato con rispetto. Per accoglierlo fu speso molto denaro.
A mezzanotte Somilak sentì di nuovo quella strana conversazione:
“Kartah! Come farà Upabhuktadhan a rifarsi delle spese sostenute per compiacere l’ospite!”
E l’altra voce rispose: “ Karman! Questo è compito mio. Il resto dipende da te”.
La mattina arrivò un inviato del del re, con molti regali e cose di pregio mandate dal re in persona.
Somilak capì che il generoso Upabhuktadhan era molto migliore del misero Guptadhan. E si augurò di diventare come Upabhuktadhan.
Finita la storia Mantharak la tartaruga disse:
“Hiranyak, anche tu non devi preoccuparti della ricchezza. La ricchezza che non viene usata non serve a niente.”
Il cervo in fuga
Mentre Mantharak diceva queste cose ad Hiranyak a proposito del valore della carità, dell’accontentarsi e così via, arrivò di corsa un cervo ed entrò nel lago. Quell’improvviso arrivo del cervo spaventò Laghupatnak, il corvo. Si alzò in volo e si rifugiò sulla parte alta di un albero. Anche Hiranyak si nascose sotto un cespuglio. Mantharak si immerse nel lago. Quando il corvo si rese conto che si trattava di un cervo assetato che cercava solo di spegnere la sete, chiamò Mantharak e Hiranyak perché uscissero dai loro nascondigli.
Vedendo il cervo terrorizzato Mantharak intuì che qualcosa lo tormentava. E disse la sua opinione al corvo. Il cervo disse che stava fuggendo dai cacciatori che avevano già ucciso molti suoi compagni. Chiese loro di proteggerlo, cosa che essi fecero volentieri.
Così Chitrang il cervo prese a vivere insieme a loro.
Un giorno Chitrang si era assentato. Laghupatnak il corvo volò in cerca di lui. E lo vide intrappolato in una rete. Dopo averlo confortato andò a chiamare Hiranyak. Anche Manrtharak volle recarsi sul posto. Il topo tagliò la rete coi suoi denti aguzzi e Chitrang riuscì a fuggire. La stessa cosa fece il corvo, ma la povera tartaruga Mantharak non ebbe la stessa fortuna. Arrivò il cacciatore e quando vide che Chitrang era scappato si arrabbiò molto. Vide la tartaruga che cercava anche lei di scappare e la catturò, avviandosi verso casa. Aveva legato Mantharak con una corda.
Quando il corvo, il topo e il cervo videro che la tartaruga era stata catturata dal cacciatore, fecero subito un piano per liberarla.
Chitrang si finse morto sulla riva del lago. Laghupatnak cominciò a becchettargli la testa. Quando il cacciatore vide la scena, convinto che Chitrang fosse morto lasciò cadere a terra Mantharak. Pensava che siccome era legata non sarebbe potuta andare da nessuna parte e cercò di recuperare il cervo. Nel frattempo Hiranyak velocemente tagliava la rete che imprigionava Mantharak, che altrettanto velocemente entrò nel lago. Non appena il cacciatore si avvicinò a Chitrang il cervo si alzò e fuggì via. Scapparono anche tutti gli altri. Vedendosi sconfitto, il cacciatore maledì il suo destino. Tornò a casa senza aver preso niente.
Morale della storia: bisogna sempre fare amicizia con persone intelligenti.
Panchatantra - letteratura
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