Nicolás Gómez Dávila
Cosa distingue una persona felice e di successo da un impiegato mediocre e frustrato? Il più grande psicologo americano ci insegna come l'empatia può cambiarci la vita. Sapere cosa sta succedendo nella nostra testa, come si ragiona e si reagisce è un'abilità spesso sottovalutata ma fondamentale per acquisire il pieno controllo sulle emozioni e liberarsi della tirannia dell'irrazionalità. Ma non si tratta solo di comprendere se stessi.
Uno studio recentissimo condotto su 4000 fra i migliori manager del mondo ha messo in luce un insospettabile punto in comune: l'empatia e l'attenzione agli altri. Solo grazie a queste qualità migliorano le prestazioni in campo professionale e sociale: comprendere gli stati mentali degli altri è l'unica chiave per acquisire disciplina, doti di team leading, capacità di persuasione e... simpatia.
Daniel Goleman spiega con esempi una teoria nuova e illuminante, supportata da esempi e prove scientifiche, che chiunque potrà sperimentare da subito nella propria vita.
L’attenzione è una risorsa mentale sottile, sfuggente, invisibile quasi, e per questo generalmente poco considerata. Eppure riveste un’importanza enorme rispetto al modo in cui affrontiamo la vita, ci mette in connessione con il mondo, plasmando e definendo la nostra esperienza: i suoi effetti, come hanno spiegato in questi ultimi anni le neuroscienze, si fanno sentire nella maggior parte delle cose che facciamo.
Dall’autoconsapevolezza, fondamento della gestione del proprio sé, all’empatia, radice della competenza nelle relazioni con gli altri, gli ambiti in cui occorre sapersi muovere sono molti: soprattutto oggi, assediati come siamo da una marea di dati che ci spinge a ricorrere quotidianamente a scorciatoie prive di metodo.
Gli ambienti in cui viviamo, pieni di tensioni, tentazioni e obiettivi contesi, tendono a confonderci, e la nostra capacità d’attenzione è fondamentale per trovare un’armonia che lasci spazio sia alla felicità sia alla produttività.
“Il funzionamento dell’attenzione è in gran parte assimilabile a quello di un muscolo: se la usiamo poco si infiacchisce, mentre se la facciamo lavorare bene acquista vigore” spiega Goleman in questo nuovo studio rivoluzionario, mostrandoci i benefici che possiamo ricavare dal suo rafforzamento e i modi in cui possiamo raggiungere questo obiettivo.
E lo fa senza mai dimenticare l’altra faccia della medaglia: la creatività, il massimo punto di equilibrio tra concentrazione e distrazione, attenzione selettiva e aperta. Perché in un mondo complesso dove tutti hanno accesso alle medesime informazioni, il valore sta nella sintesi originale, nelle domande nuove e controintuitive, nelle risposte destabilizzanti che dischiudono potenzialità non ancora sfruttate.
Indice
PRIMA PARTE -
L'anatomia dell'attenzione
Nozioni di base
Attenzione top-down e bottom-up
Il valore di una mente alla deriva
Trovare l'equilibrio
SECONDA PARTE - Consapevolezza di sé
TERZA PARTE - Leggere gli altri
QUARTA PARTE - Il contesto più ampio
QUINTA PARTE - L'esercizio intelligente
SESTA PARTE - Il leader concentrato
Come i leader guidano l'attenzione
La triplice concentrazione del leader
Le qualità che fanno un leader
SETTIMA PARTE
Autore
Daniel Goleman, già professore di psicologia a Harvard, è autore di Intelligenza Emotiva (1996), che ha venduto oltre cinque milioni copie in tutto il mondo. Ha avuto il grande merito di aver contribuito a sviluppare un atteggiamento culturale più rispettoso e favorevole alle emozioni.
PATANJALI YOGA SUTRA, PRIMO LIBRO: IL RICONGIUNGIMENTO [NEW]
Descrizione di L'Arte della Serenità
La serenità, che può essere definita la chiave di volta del nostro benessere psicofisico, nasce dal naturale equilibrio fra interiorità ed esteriorità e si situa sulla linea di demarcazione fra opposte esigenze: è quell'armonia nei confronti di se stessi e degli altri che viene messa a dura prova dagli avvenimenti, positivi o negativi che siano.
Come fare a conservarla o a ripristinarla quando la si è perduta? Il problema è stato dibattuto dai saggi di tutti i tempi e di tutti i paesi.
Partendo dalle loro considerazioni Claudio Lamparelli svolge una serie di riflessioni riguardanti le situazioni pratiche della nostra esistenza che mirano a un duplice scopo: identificare le cause profonde che mettono in crisi la serenità e realizzare, con queste stesse meditazioni, una particolare specie di difesa e di terapia, quella che un tempo si chiamava «cura dell'anima».
Yoga Vasistha
Maharishi Valmiki (ca. 400 aC, India
settentrionale) è l'autore dell'epica induista Ramayana. La storia di Valmiki è
immersa nella leggenda. Secondo una versione egli era un brigante paria di nome
Ratna che viveva nella foresta per depredare i viaggiatori; un giorno passò
dalla foresta il saggio Narada, e quando Ratna lo attaccò Narada gli chiese la
ragione delle sue azioni malvagie, al che Ratna replicò che era per prendersi
cura della sua famiglia, cioè i suoi anziani genitori, sua moglie e i suoi
figli. Il saggio gli chiese allora se essi sarebbero stati disposti a
condividere con lui la punizione per i suoi misfatti, e sebbene Ratna fosse
sicuro che lo fossero, seguì il consiglio del saggio, e dopo averlo legato a un
albero tornò a casa per porre loro la domanda; la sua famiglia diede però una
risposta negativa, sostenendo che fosse suo dovere prendersi cura di loro, e
che non erano responsabili per il modo che egli aveva scelto per farlo. Deluso,
tornò dal saggio, che gli disse di pentirsi dei suoi peccati e abbandonare la
strada che aveva scelto, e cantare il nome di Shri Rama. Secondo la leggenda
egli meditò lì per tanto tempo che su di lui si formò un formicaio (valmik in
sanscrito) senza che se ne accorgesse, da cui il nome Valmiki, e divenne un maharishi
(grande saggio). Sempre secondo le varie leggende, Valmiki assistette nella
foresta all'uccisione di un uccello da parte di un cacciatore; egli fu molto
toccato dalla sofferenza di questo, e compose e cantò una canzone per lui.
Brahma udì la canzone e ne fu profondamente commosso, perciò apparve al
cospetto di Valmiki e gli chiese di comporre una canzone sulla vita di Shri
Rama con versi altrettanto belli. Valmiki accettò, e Brahma gli donò la
conoscenza completa della vita di Shri Rama, con la quale egli cominciò a
comporre un poema, il Ramayana. Il Ramayana è il più antico poema scritto in
sanscrito, ed è perciò chiamato Adikavya ("il primo poema"); per
questo Valmiki è anche noto come Adikavi ("il primo poeta"). Si
racconta che sia stato Maharishi Valmiki a offrire ospitalità a Sita, sposa di
Rama e regina di Ayodhya, quando questa fu esiliata, e che nel suo eremo nella
foresta nacquero e crebbero i due gemelli figli di Rama e Sita, Lava e Kusha. A Valmiki viene attribuito anche lo Yoga
Vasistha, un testo che tratta di un'ampia gamma di temi filosofici e che si
dice sia stato composto più di 5 millenni fa.
EPIGENETICA: conversazione con Bruce Lipton sul DNA
NOVITÀ: finalmente anche in italiano il libro di Bruce Lipton LA
BIOLOGIA DELLE CREDENZE - Come il pensiero influenza il DNA e ogni
cellula
La Biologia delle Credenze
Bruce H. Lipton
Durante
il periodo in cui Bruce Lipton, Ph.D [vedi Scienza e Conoscenza n°10],
lavorava come ricercatore e professore alla scuola di medicina, fece una
sorprendente scoperta sui meccanismi biologici attraverso i quali le
cellule ricevono ed elaborano le informazioni: infatti, piuttosto che
controllarci, i nostri geni sono controllati, sono sotto il controllo di
influenze ambientali al di fuori delle cellule, inclusi i pensieri e le
nostre credenze.
Questo
prova che non siamo degli “automi genetici” vittimizzati dalle eredità
biologiche dei nostri antenati. Siamo, invece, i co-creatori della
nostra vita e della nostra biologia.Lipton descrive questa nuova scienza, chiamata epigenetica, nel suo libro “The Biology of Belief: Unleashing the Power of Consciousness, Matter and Miracles”
(N.d.T.: Biologia delle Credenze: Liberare il Potere della
Consapevolezza, della Materia e dei Miracoli) (2005: Mountain of
Love/Elite Books). Pieno
di citazioni e riferimenti di altri scienziati che conducono, in tale
campo, ricerche all’avanguardia, questo libro potrebbe, letteralmente,
cambiare la vostra vita al suo livello più fondamentale.
Fino alla scoperta dell’epigenetica, si credeva che il nucleo di una cellula, contenente il DNA,
fosse il “cervello” della cellula stessa, del tutto necessario per il
suo funzionamento. Di fatto, come hanno scoperto Lipton ed altri, le
cellule possono vivere e funzionare molto bene anche dopo che i loro
nuclei siano stati asportati. Il vero “cervello” della cellula è la sua
membrana, che reagisce e risponde alle influenze esterne, adattandosi
dinamicamente ad un ambiente in perpetuo cambiamento. Che
cosa significa questo per noi, quali collezioni di cellule chiamati
esseri umani? Man mano che incrociamo le diverse influenze ambientali,
siamo noi a suggerire ai nostri geni cosa fare, di solito
inconsciamente. I carboidrati ci fanno ingrassare? Sì,se lo crediamo.
Saremo amati, avremo successo nel lavoro, saremo ricchi? Se ci crediamo,
lo saremo.
Lipton
ci mostra anche come Darwin avesse torto. La competizione non è la base
dell’evoluzione; non è la sopravvivenza del più forte che ci permette
di sopravvivere e prosperare. Al contrario, dice, dovremmo leggere
l’opera di Jean-Baptiste de Lamarck, che venne prima di Darwin e
dimostrò che la cooperazione e la comunità sono la base della
sopravvivenza. Immaginate se ciascuna dei vostri trilioni di cellule
decidesse di farcela da sé, di combattere per essere la regina della
collina piuttosto che cooperare con le cellule compagne. Per quanto
sopravvivereste?
Bruce Lipton
Ph.D. è un’autorità mondiale per quanto concerne i legami tra scienza e
comportamento. Biologo cellulare, ha insegnato Biologia Cellulare
presso la facoltà di Medicina dell’Università del Wisconsin e si è
dedicato in seguito a ricerche pionieristiche alla School of Medicine
della Stanford University. È stato ospite di decine di programmi
radiotelevisivi ed è un conferenziere di primo piano. Le sue
rivoluzionarie ricerche sulla membrana cellulare hanno precorso la nuova
scienza dell’epigenetica e hanno fatto di Lipton una delle voci più note della nuova biologia.
L'INTERVISTA
Barbara Stahura: La premessa di base della tua ricerca e del tuo libro, The Biology of Belief, è che il DNA non controlla la nostra biologia.Bruce Lipton:
Sì.
Ho cominciato a studiare questo verso la fine degli anni ’60. Da allora
la scienza di frontiera ha iniziato a rivelare tutte le cose che avevo
osservato. I biologi che fanno ricerca d’avanguardia sono a conoscenza
di ciò che dico nel libro. Il pubblico, però, non ne ha comprensione
alcuna perché, o gli arriva in forma abbreviata, o quello che gli viene
venduto è la credenza che siamo controllati dai nostri geni, sebbene ciò
non sia sostenuto dalla scienza d’avanguardia. Tutto il mio sforzo si è
concentrato nel far giungere al mondo l’informazione d’avanguardia.
L’orientamento mentale del pubblico è stato programmato secondo la
credenza che siamo degli automi genetici, che i geni controllano la
nostra vita, che ne siamo vittime, e via di seguito. Il punto, però, è
che la scienza di frontiera – quella di cui parlo – si è stabilizzata da
almeno 15 anni. È ora che sia portata nel mondo perché è lì che viene
usata.
BS: Questa scienza relativamente nuova sulla quale tu scrivi viene chiamata epigenetica. Ci spiegheresti di che cosa si tratta?
BL: L’epigenetica
è quella scienza che mostra che i geni non si auto-controllano, ma sono
controllati dall’ambiente. Si sa da circa 15 anni, e ora fa finalmente
fa capolino da dietro l’angolo. Ti faccio un esempio. La Società
Americana per il Cancro ha recentemente pubblicato una statistica che
afferma che il 60 per cento dei tumori sono evitabili, cambiando stile
di vita e dieta. Quest’informazione proviene da un’organizzazione che ha
cercato per circa 50 anni i geni del cancro. E ora se ne viene fuori
dicendo: è lo stile di vita, non sono i geni. Ci siamo focalizzati sul
cancro come se fosse una questione genetica, ma solo il cinque per cento
dei cancri ha una connessione genetica. Il novantacinque per cento dei
cancri in effetti non ha nessuna connessione coi geni. La ragione (che
ci fa dire che c’è una connessione genetica) è che tale spiegazione è
fisica, tangibile, perciò preferiamo lavorare su di essa. E il 95 per
cento che ha un cancro e non c’è una connessione genetica? Non è facile
fare esperimenti su qualcosa sulla quale non puoi focalizzarti
fisicamente.
BS: Così il determinismo genetico – l’idea che siamo controllati dai nostri geni – è inevitabilmente incrinata, come dici nel libro.
BL: Sì.
BS: Hai
scritto anche di Jean-Baptiste de Lamarck e della sua teoria
dell’evoluzione – che sopravviviamo attraverso la cooperazione,
piuttosto che la più recente idea darwiniana di competizione e
sopravvivenza dei più forti. Che tutti i nostri trilioni di cellule
devono cooperare per mantenere il nostro corpo in perfetto
funzionamento, in quanto noi esseri umani non possiamo sopravvivere
senza grandissime quantità di cooperazione gli uni con gli altri e con
il nostro ambiente.
BL:
Immediatamente, appena hai detto cooperazione, stavi violando la teoria
darwiniana, che è competizione e lotta. Di fatto, si tratta di
un’interpretazione erronea. La nuova scienza ci dice che quella credenza
è sbagliata. La credenza di cui hai appena parlato, invece - la natura
della cooperazione e della comunità - è in effetti il principio basilare
dell’evoluzione.Nel
1809 Lamarck ha scritto che i problemi che tormenteranno l’umanità
verranno dal suo separarsi dalla natura, e ciò condurrà alla distruzione
della società. Aveva ragione, perché la sua enfasi sull’evoluzione era
che un organismo e l’ambiente creano un’interazione cooperante. Se
volete capire il destino di un organismo, dovete capire la sua relazione
con il suo ambiente. Poi ha affermato che separarci dal nostro ambiente
significa assumere la nostra biologia e tagliarci fuori dalla nostra
sorgente. Aveva ragione. E quando arrivi a capire la natura dell’epigenetica,
la sua teoria ora ha trovato sostanza. Senza alcun meccanismo che,
all’inizio, le desse un senso - e specialmente da quando abbiamo
comprato il concetto dei biologi neo-darwiniani che affermano che tutto è
controllato geneticamente - Lamarck sembrava stupido. Ma sai cosa?
Aveva proprio ragione.
BS: La tua dimostrazione che il “cervello” della cellula non è il DNA
ma, bensì, la sua membrana è affascinante. Che significato ha questa
scoperta riguardo a ciò che pensiamo di noi stessi e della nostra vita,
dal momento che siamo proprio una comunità di cellule?
BL:
Se due cellule si uniscono e stanno comunicando, useranno i loro
“cervelli” per farlo, giusto? E se dieci cellule si uniscono, useranno i
loro cervelli affinché la loro comunicazione reciproca abbia un senso.
Quando prendi un insieme di un trilione di cellule, come in un cervello
umano, queste opereranno ancora secondo il principio del cervello
cellulare. Beh, quando abbiamo comprato l’idea che i geni ed il nucleo
formano il cervello della cellula - che ci porta fuoristrada - e la
applichi come fosse un principio di neurologia o di neuro-scienza, ti
sei già incamminato nella direzione sbagliata. Non puoi arrivare da
nessuna parte perché quello non è il cervello della cellula.
I
nostri principi su come funziona l’intelligenza sono stati totalmente
sviati. Ecco perché, dopo tanta neuro-scienza, se chiedi a qualcuno:
“come funziona, veramente, il cervello?” La risposta sarà: “veramente,
non lo sappiamo”.Il
Progetto Genoma Umano dice che quel modello è sbagliato. Pensavamo che
ci volessero più di 100.000 geni per far funzionare un essere umano. Il
fatto che ce ne siano meno di 25.000 ha messo un bastone tra le ruote
dell’intero processo.
Come può esserci un tale esiguo numero di geni
a formare una cosa così complessa come un essere umano? La risposta è
che ci vuole molto di più dei soli geni a farlo funzionare – che è
l’apporto dall’ambiente che può alterare la lettura dei geni.
Ci
sono 140.000 proteine in un corpo umano, e si credeva che ciascuna
richiedesse un gene separato per prodursi. Di colpo, trovi che ci sono
25.000 geni e 140.000 proteine, e non ci siamo con i numeri.
L’epigenetica rivela qualcosa di così sorprendente che la scienza stessa
ha dei problemi a comprendere la forza di questo nuovo significato, e
suona così: con il controllo epigenetico, che significa il controllo
mediato dall’ambiente, un singolo gene può essere usato per creare 2000 o
più proteine diverse dalla stessa matrice. Il controllo epigenetico
è come un lettore che può leggere l’impronta originaria e
ristrutturarla per produrne qualcosa di diverso. Ed ecco come un singolo
gene può essere usato per creare molti prodotti proteici differenti.
Non è stato il gene che ha prodotto ciascuna proteina, è stato il
controllo epigenetico che l’ha fatto, e questo è il feedback diretto
dall’ambiente. Ci allontana da quel meccanismo che dice che siamo solo
macchine.
BS: E ci dice invece che non siamo vittime. Siamo co-creatori.
BL: Assolutamente.
BS: Per
tanti l’idea che siano i nostri pensieri a creare la realtà, che è
quello su cui si basa la Scienza Religiosa e altre tradizioni
metafisiche e spirituali, è un’idea puramente spirituale. Ma la fisica
quantistica ha aggiunto all’idea, il fatto scientifico. E ora, il tuo
lavoro e quello di altri porta quel concetto a livello delle cellule.
Che lo rende in qualche modo più reale, più tangibile.
BL:
Se si definisce lo spirito più o meno su questi parametri si potrebbe
ottenere una definizione del tipo “una forza motrice invisibile.” Se
definisco la natura della meccanica quantistica, è una forza motrice
invisibile. Di fatto afferma: “Sì, ci sono forze invisibili che
modellano la nostra esistenza”. Poiché la nostra biologia è
tradizionalmente basata su un concetto newtoniano e materialistico, la
natura di quel sistema è di considerare le forze invisibili come non
rilevanti. Però, quello che la meccanica quantistica ha stabilito è che
le forze motrici invisibili sono tutto. Perciò, se la nostra scienza non
si adatta alla nuova fisica, sta di fatto ostacolando il progresso in
evoluzione. Quando si introducono nuove forze, si deve dar loro nuovo
credito, e quando lo si fa, i ricercatori spirituali saltano su e
dicono: lo sapevo! E i fisici quantistici saltano su e dicono, lo
sapevo! Stiamo sempre parlando della stessa cosa. Se lo ammettessimo,
l’opportunità di unione diventa così tangibile che è quasi fisica. Sì,
possiamo sentirla! Ora possiamo essere tutti d’accordo. Tu la chiami
come vuoi, io la chiamo come voglio. Ma siamo tutti governati da queste
forze invisibili.
BS: Ho
letto una tua intervista nella quale hai affermato, “piuttosto che
esser vittime dei nostri geni, lo siamo stati delle nostre percezioni.”
Puoi aggiungere qualcosa su ciò che significa essere una vittima delle
nostre percezioni?
BL:
In un certo senso, sappiamo attraverso lo studio della membrana
cellulare, attraverso lo studio dell’epigenetica, che questo è
fondamentale. L’epigenetica dice che i segnali ambientali influenzano
l’espressione genetica, e questi segnali ambientali talvolta sono
diretti, e tal’altra sono interpretazioni, quando per es.le percezioni
diventano credenze. Così, ho una credenza su qualcosa, che è una
percezione, e aggiusto la mio biologia a quella particolare credenza.
Come col cancro terminale, se credo a quello che i medici mi dicono, lo
loro diventa una vera e propria predizione. Se dicono che ho il cancro
terminale e sono d’accordo, allora essenzialmente morirò quando, a detta
loro, accadrà. Quali sono le persone che non lo fanno? I casi di
“remissione spontanea.” Almeno una persona, scommetto, non ha “comprato”
quella diagnosi. E la sola ragione per la quale ne sono usciti è che
avevano un altro sistema di credenze completamente diverso, e quindi
sono stati capaci di cambiarlo.
BS: Come possiamo cambiare le nostre percezioni o credenze fino a quel punto?
BL:
La prima cosa è acquisire le nuove percezioni di come funziona la vita.
Lasciare andare o riconsiderare le percezioni con le quali ci siamo
formati, che, inevitabilmente, sono vittimizzanti: sono fragile,
l’ambiente mi può attaccare, lo zucchero fa male. Queste sono credenze
acquisite. Ma la questione è, sono veramente vere? Sono vere se questo è
ciò che credi, dal momento che la percezione governa la biologia. Se
sono programmato dalla percezione che lo zucchero è dannoso alla mia
biologia e lo mangio, allora essendone a conoscenza intossico il mio
sistema con la credenza, non con lo zucchero. La maggior parte di queste
percezioni si manifestano come credenze limitanti o auto-sabotanti su
quello che possiamo o non possiamo fare. Come l’auto-guarigione.
La
tendenza è, no, non ti puoi guarire da solo, devi andare da qualcun
altro che ti guarirà. Santo cielo! Dopo parecchi miliardi di anni di
evoluzione, il sistema fu progettato per auto-guarirsi. Per quanti
milioni di anni gli esseri umani hanno fatto senza medici? Perché
abbiamo bisogno di così tanti medici ora? Perché la percezione è che
siamo deboli e fragili, ed abbiamo bisogno del loro aiuto. Bene, questa è
una percezione.
Quando eliminiamo questa percezione ed iniziamo ad
immettere nuove percezioni, allora cambiamo la risposta della nostra
biologia al mondo che ci circonda. Man mano che cambiamo le nostre
percezioni, cambiamo le nostre risposte. Le percezioni con le quali
operi – ti danno sostegno o te lo tolgono? Ti rendono più forte o più
debole?Queste
percezioni sono nel subconscio, che controlla il 95 per cento della
nostra vita. E, quando lo fa, lo fa senza che noi ce ne accorgiamo. Non
vediamo di fatto i programmi che sono automatici. Funzionano perché il
conscio è occupato, ed i programmi automatici ne prendono il posto.
Quando
il conscio è occupato a fare qualcosa, non sta osservando se stesso. Ci
sono due fattori che ci aiutano a capire questo. Uno, la mente
cosciente opera con un processore da 40 bit, che significa che può
interpretare ed elaborare 40 bit di stimoli nervosi – un bit è uno
stimolo nervoso – al secondo. Il che significa che entrano 40 stimoli al
secondo e la mente cosciente li discerne e li capisce. La mente
subconscia in quello stesso secondo sta elaborando 40 milioni di bit. Da
rilevare: se confronto l’elaborazione della mente conscia con quella
subconscia, la subconscia è un milione di volte più potente
nell’elaborare informazioni. Elemento numero due: i neuroscienziati
cognitivi dicono che il 5 per cento del nostro comportamento giornaliero
è controllato dalla nostra mente cosciente ed il 95 per cento dal
programma subconscio. Perciò nella nostra esistenza quotidiana, la mente
subconscia è la fonte più potente della nostra biologia. La mente
subconscia è un nastro registratore. Non c’è nessuno lì. È praticamente
un congegno di stimolo-risposta. Non c’è bisogno di esserne coscienti.
Voi ve ne andate in giro per il mondo, e farà quello che deve fare senza
che dobbiate pensarci.Quando la mente cosciente è occupata, non sta osservando il subconscio.
Ed
il subconscio è composto dai programmi fondamentali che abbiamo
ricevuto dagli altri nei primi sei anni. Mentre si vive la vita con le
nostre intenzioni e i desideri della mente cosciente, il 95 per cento
del comportamento viene dalla mente subconscia, che è stata programmata
da altri.E
la maggior parte di tale programmazione è veramente limitante. Non ti
puoi guarire da solo, non sei abbastanza intelligente, non ti meriti le
cose buone, non sei bravo in disegno o quello che è. Queste affermazioni
diventano programmi subconsci, che si attivano quando non faccio
attenzione. La mente cosciente nella maggioranza è occupata a pensare al
futuro o al passato. E se il conscio è occupato in questo, nel momento
presente, si è veramente guidati dal subconscio. Il vostro cosciente è
occupato a cercare di pensare: “Mi merito un aumento e di certo dovrei
salire di grado in questa ditta.” Mentre lo fate di certo, state
operando dal subconscio, e quello ha un programma che afferma che non vi
meritate le cose. Qual è allora l’espressione del vostro comportamento?
Il comportamento che è coerente con “Non mi merito.” Ciò significa che
farete degli errori o altro che renderanno legittimo che non vi
meritiate le cose. Non ve ne rendete conto perché non l’avete visto
all’opera, e diventate frustrati riguardo la vostra vita perché ci
provate così tanto ad avere successo e non andate mai da nessuna parte. E
poi, ovviamente, la tendenza è, non sei tu, è il mondo ad ostacolarti.
La grande e bizzarra sorpresa è che il mondo vi darà qualsiasi cosa. E’
il vostro stesso sé che è d’intralcio.
BS: Come facciamo a vincere l’opposizione della nostra programmazione subconscia?
BL:
Diventane cosciente. Ci sono un paio di modi di farlo. Il modo più
antico è quello dell’attenzione Buddhista. Se sei cosciente di essere
qui in questo momento, mentre fai questo stupido errore, osservi
l’errore, e potresti rimediarlo. La consapevolezza, però, è una cosa
molto difficile da addestrare, ed è anche un processore da 40 bit che
cerca di far funzionare completamente il processore da 40 milioni di
bit. Perciò, per la maggior parte della gente è una procedura molto
difficile perché le loro vite sono così indaffarate e sono talmente
occupati che non riescono a prendere atto di ciò. L’altro
modo è, puoi ritornarci dentro e riscrivere il programma, ma ci sono
due cose che devi fare: A) Identificare il programma, e B) Eseguire una
procedura per riscriverlo. Quello che riflette è qualcosa alla quale la
maggior parte della gente non ha fatto attenzione e è da dove vengono la
maggior parte dei problemi. Pensano che possono semplicemente parlare
alla mente subconscia e che questo la migliorerà. Ma la mente subconscia
è un nastro registratore. Mettete un nastro nel vostro mangiacassette,
accendetelo, e poi ditegli di riprodurre qualcosa di diverso. Il fatto
è, che lì, non c’è nessuno. Non farà niente. Ed il potere del pensiero
positivo – la maggior parte della gente dice, il potere del pensiero
positivo! Provalo! E quando non funziona si sentono peggio perché non
possono neanche fare quello. Perché non funziona? Perché se il programma
subconscio non è allineato con la direzione conscia, allora si ha un
programma che funziona su un processore di 40 milioni di bit 95 per
cento del tempo, che vi tira giù mentre voi impiegate il 5 per cento del
vostro tempo nella vostra immaginazione pensando pensieri positivi,
mentre il vostro subconscio sta conducendo lo spettacolo e sabotandovi
proprio nel bel mezzo dei vostri pensieri positivi.Il
pensiero positivo funziona solo se le credenze nel subconscio sono in
linea con esso, o se siete completamente attenti. Se siete totalmente
attenti ed usate quel desiderio di essere positivi e far funzionare le
cose, allora vi accorgerete quando il vostro subconscio sta facendo
andare un nastro e voi potete cancellarlo. Ma se non siete attenti e
pensate solo pensieri positivi, allora non state conducendo lo
spettacolo. Da qui vengono i conflitti. E, ovviamente, se voi foste così
positivi nella vostra mente e pensaste che state conducendo lo
spettacolo e pensando che non funzioni, ovviamente il mondo vi è contro.
No, il mondo non vi è contro, sono i programmi limitanti ed
auto-sabotanti che acquisiamo in gioventù. Qui è dove dobbiamo
azzerarci.
EPIGENETICA: conversazione con Bruce Lipton sul DNA
Il Panchatantra è un'opera letteraria indiana ed esiste da oltre 5000 anni. In tutto il mondo ce ne sono oltre 200 versioni. La più utilizzata è attribuita a Pandit Vishnu Sharma che ha raccolto in un unico testo tutte le storie tra il 1200 aC e il 300 dC. Egli fu chiamato alla corte del re Amar Shankti per impartire ai sui tre figli la saggezza per governare bene il regno. Vishnu Sharma promise di farlo entro sei mesi, e lo fece raccontando loro delle storie. La maggior parte di esse aveva come protagonisti degli animali.
Panchatantra - letteratura
Quello che gli antropologi definiscono come ‘Subcontinente
indiano’ è una vasta area che raccoglie territori accomunati dalle medesime
radici storico–culturali: le sterminate regioni dell’India, ma anche lo Sri
Lanka, il Nepal, il Bhutan, il Bangladesh e il Pakistan.
In questo esteso territorio circolano da millenni gli stessi antichissimi miti,
le medesime leggende, parabole, fiabe, favole, epopee, aneddoti, racconti… le
Terre d’India sono ricchissime di un’immensa varietà di storie: celebrazioni di
una fede nella sconfinata varietà dell’universo, nel simultaneo verificarsi di
tutto, nella coesistenza di tutte le possibilità senza che esse si debbano
escludere a vicenda. Così le storie si intersecano, in India, si sovrappongono
in tutte le loro forme. Si ripetono in versioni brevi e lunghe. E quando sono
lunghe, lo sono davvero, tanto che per raccontarle occorrono giorni. Giorni e
notti. E quando infine le raccogliamo per metterle insieme, formano una distesa
smisurata come l’ “Oceano dei Fiumi dei Racconti”di Somadeva.
Si sosteneva, già in epoca romantica, che l’India fosse la madre di tutta la
nostra letteratura. Oggi, di sicuro sappiamo che alcuni testi, come le favole e
le fiabe, grazie alla loro brevità e semplicità, grazie all’universalità del
loro messaggio, dall’India, dove sono nate, hanno viaggiato facilmente fino
all’Occidente. Certo, la strada le ha trasformate: si sono mascherate e hanno
assunto le apparenze del paese che le ha accolte.
Le fonti antiche
È necessario a questo punto comprendere le fonti in cui tutte le storie
indiane affondano le loro radici. Le fonti maggiori dei racconti mitici
dell’Induismo sono costituite da testi composti in sanscrito, lingua
indoeuropea parente stretta del greco e del latino. La fonte più antica – in realtà,
il più antico documento d’una lingua indoeuropea – è il “Riveda”, raccolta di
più di mille inni destinati ad accompagnare i sacrifici per le divinità e
trasmessi oralmente per diversi secoli prima d’essere messi per iscritto
attorno al 1200 a.C.
I testi successivi sono i “Brahmana” (900–700 a.C.), trattati sacerdotali
ricchi di dettagli che fanno riferimento alla mitologia per spiegare i riti. Un
corpus di nuovi racconti viene introdotto nel “Mahabharata” (300 a.C.–300
d.C.), la grande epopea dell’India che consta di oltre centomila strofe: dieci
volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme. In India si dice: “Quel che non
c’è nel “Mahabharata”, non esiste da nessun’altra parte”.
Il “Ramayana” (200 a.C.–200 d.C.), l’altra grande epopea in lingua sanscrita, è
di gran lunga più omogeneo del “Mahabharata”, più breve e più sofisticato nello
stile letterario: consta di sette libri, il nucleo del poema è la narrazione
delle avventure di Rama, ma i libri primo e settimo includono molte altre
importanti narrazioni mitiche. Le fonti di gran lunga più estese per la
mitologia dell’Induismo sono però i diciotto ‘grandi’ “Purana” e i numerosi
“Purana” ‘minori’, vere enciclopedie del pensiero indiano, riletture induiste
dei più antichi racconti mitici.
Amore, passione, rivalità, odio, tradimento, fedeltà, rinuncia, orgoglio,
santità, eroismo, pazienza, temerarietà, eccesso e generosità dominano queste
epopee dove gli uomini, nella loro saggezza e nella loro follia, si confrontano
con il divenire del mondo. Gli dei e i demoni si mescolano ai mortali, generano
dei figli dai poteri superumani, proteggono i loro devoti e li iniziano all’uso
di armi terrificanti che possono annientare l’universo in un istante. Il
meraviglioso si mescola al quotidiano. Un brahmano si trasforma in gazzella per
soddisfare i propri desideri; una scimmia si muta in monaco errante per
condurre la propria ricerca interiore; con un salto il dio Hanuman, comandante
delle armate delle scimmie, sfiorando il sole che non lo brucia, supera
l’oceano e atterra in Sri Lanka; gli alberi si trasformano in clave nelle mani
degli eroi, le cui gesta sono degne degli effetti speciali del cinema
contemporaneo.
Affacciarsi all’enorme ricchezza di questi testi antichissimi è come sporgersi
su un paesaggio di straordinaria profondità, varietà e bellezza: una vertigine
ammaliante.
Il “Panchatantra”: la favola in India e la favola in Europa
I termini ‘favola’ e ‘fiaba’, sebbene a volte siano impropriamente utilizzati
in modo indistinto, non sono affatto sinonimi e si riferiscono a generi
letterari differenti. La favola è un racconto breve che ha come protagonisti
per lo più degli animali che personificano i comportamenti – sia le virtù che i
vizi – dell’uomo, e in cui la morale è esplicita.
Benché fissate molto tardi nelle forme che noi conosciamo, le favole indiane
sembrano tanto antiche quanto le favole di Esopo. Senza entrare nel problema
dei rapporti tra le due tradizioni, dobbiamo riconoscere quanto il genere fosse
più affine alla cultura indiana che a quella greca, se consideriamo i tratti
generali costituiti da una combinazione di intenti edificanti e di
divertimento, l’alternanza di versi e prosa, e l’idea stessa di mettere in
scena animali dotati di sentimenti umani. L’India non conosce infatti la
distinzione, così come la applichiamo noi occidentali, tra uomini e animali: la
credenza nella trasmigrazione dell’anima spiega l’eterno interscambio tra i due
regni. È vero che tutte le popolazioni più antiche – non solo quelle indiane –
hanno sperimentato, nei racconti, una commistione tra uomini e altri esseri del
creato, ma mentre il progresso nella cultura occidentale portava l’uomo e gli
animali ad una netta separazione, per gli indiani essi si avvicinavano sempre
più, proprio per la dottrina della metempsicosi che domina ancora oggi il
pensiero induista.
Le favole indiane più antiche sono già presenti nel “Mahabharata” tra le
molteplici storie che contiene. E così mentre Yudhisthira, uno dei cinque
fratelli Pandava, eroi del “Mahabharata”, si chiede quale comportamento debba
adottare un sovrano povero di risorse, viene introdotto un dialogo tra il Gange
e l’Oceano che rispecchia esattamente la favola dell’ulivo e della canna in
Esopo:
“Caro sposo Oceano – disse la dea Gange – gli
alberi si innalzano superbi nella loro posizione, e quando viene la mia piena
si oppongono presuntuosi alla corrente: è proprio per questa loro resistenza
che devono poi abbandonare la propria sede. La canna invece, se vede
avvicinarsi la piena, la sa accogliere, e accetta di piegarsi. Così, quando la
piena è passata, eccola di nuovo salda al suo posto. La canna sa riconoscere il
tempo giusto, non è mai superba, sa accettare anche gli eventi negativi, non
dispera mai e conosce l’umiltà. Ecco perché non viene trascinata via”.
Ma è il
successivo “Panchatantra” a rappresentare, senza dubbio, una delle raccolte di
favole più famose, sia nel suo paese di origine che altrove. Messo per iscritto
ad una data incerta, tra il I e il VI secolo d.C., il libro aveva lo scopo di
iniziare i giovani principi all’esercizio del potere. L’introduzione narra di
un re che aveva tre figli svogliati e indolenti. Di fronte alla sua
preoccupazione, un consigliere gli raccomandò di rivolgersi ad un saggio
brahmano. Quest’ultimo, Vishnusharma chiamato anche Pilpay, accettando la
missione che gli stava affidando il re, affermò che giorno dopo giorno, in capo
a sei mesi, i tre figli sarebbero divenuti ‘uomini senza pari nella scienza del
governo’. Così compose proprio per loro il “Panchatantra”, il cui metodo –
istruire divertendo attraverso un’affascinante sequenza di favole sulle diverse
filosofie della vita – diede ottimi frutti.
Anche se le storie sono inserite le une nelle altre, ogni favola può essere
letta indipendentemente: questo fattore contribuì al loro successo e alla
facilità con cui hanno circolato. Ecco così che le favole indiane sono arrivate
fino a noi dopo aver percorso un lungo cammino. Dall’India, ad esempio, il
“Panchatantra” ha raggiunto la Persia dove, nel VI sec., un re sassanide lo
fece tradurre in pahlavi facendovi aggiungere altre storie provenienti dal
“Mahabharata”. Questa versione, oggi perduta, servì da base alla traduzione
araba di Ibn al–Muqaffa. All’inizio della raccolta indiana, un ruolo importante
viene assegnato a due sciacalli, Karakala e Damanaka. I loro nomi, in arabo
Kalila e Dimna, divennero il titolo di un’opera ancora diversa, ma che sempre
si riferiva ai modelli indiani. La raccolta di Ibn al–Muquaffa poi fu tradotta
molte volte, di sicuro in aramaico e in greco. Tra il 1263 e il 1273 Jean de
Capoue ne propose una versione latina in “Liber Kalilae e Dimnae” o
“Directorium vitae humanae” che fu poi trasposta in tedesco, spagnolo e
francese. Parallelamente, l’opera araba tradotta in persiano divenne “Il Libro
dei Saggi o La Condotta dei Re” che arrivò in Francia con il titolo di “Fables
de Pilpay”, che ci conduce diritti a La Fontaine. Quest’ultimo non esitò a
riconoscere il suo debito nei confronti dei predecessori indiani: “Dirò per
riconoscenza che devo gran parte del mio lavoro a Pilpay, saggio indiano”,
scrisse nella prefazione del suo settimo libro di favole. Non a caso
Vishnusharma–Pilpay viene comunemente chiamato anche ‘Padre delle favole dell’Occidente’.
Il rapporto tra la favola indiana e quella europea rappresenta solo uno dei
numerosi tasselli letterari che legano la cultura dell’Europa e quella
dell’India.
Per secoli l’aggettivo ‘misterioso’ utilizzato riferendosi all’India dai
viaggiatori europei ha espresso invece, il più delle volte, un approccio
superficiale, un alibi per non avventurarsi davvero nelle profondità della
millenaria cultura indiana. Per contro, proprio gli europei, traducendo con
passione nell’800 gli antichi testi scritti in sanscrito – lingua appannaggio
della sola casta brahmanica – hanno consentito la diffusione della cultura
indiana tra gli indiani stessi.
Le fiabe indiane: i temi e i personaggi
La fiaba, a differenza della favola, è invece un racconto popolare di meraviglie,
dove l’elemento fantastico e soprannaturale non è vissuto come straordinario,
ma viene presentato come normale e abituale. Nella fiaba la dimensione naturale
e terrena s’intreccia continuamente con la dimensione soprannaturale e magica.
Ma più che nei contenuti meravigliosi, la forza della fiaba risiede nel suo
intento profondo: a differenza della favola che ha un intento prettamente
morale, il proposito davvero meraviglioso della fiaba è quello di annunciare
che una vita piena è alla portata di ciascuno nonostante le avversità e le
condizioni iniziali sfavorevoli, a patto che si affrontino quelle rischiose
lotte senza le quali non si può raggiungere la propria vera identità.
Il grande albero delle fiabe indiane affonda così le sue lunghe radici nella
millenaria tradizione orale (che ha trovato poi forma scritta nelle fonti
antiche già menzionate, nelle numerose raccolte di racconti brahmanici e jaina,
prevalentemente in sanscrito, o nelle raccolte di racconti composti nelle
antiche lingue medio–indoarie dalle quali deriva, ad esempio, una delle
primissime forme delle “Mille e una notte”) un groviglio di saperi di
sorprendente antichità che si è saputo continuamente rinnovare in nuovi
germogli narrativi: proprio come fa il Banyan, detto anche ‘albero della
conoscenza’, simbolo della trasformazione e del tempo perché si sa rigenerare
attraverso i propri stessi rami che, con il tempo, si piegano verso il terreno
e diventano poi radici di nuovi virgulti. Le storie partono dalla tradizione
orale per ritornare poi a nutrirla; rimbalzano tra i manoscritti sanscriti e i
cantastorie di villaggio, e ciascuno aggiunge qualcosa di nuovo. Come il
Banyan, la radice orale esce dal terreno e produce rami scritti, ma questi poi
continuano a crescere affondando di nuovo nella terra, e danno vita a nuove
radici e a nuovi tronchi, a nuove oralità.
Al di là dei facili stereotipi occidentali, ecco allora l’India in cui si
rivela l’umanità del divino e la capacità dell’uomo di trascendere i propri
limiti, ecco asceti cosparsi di cenere, maharaja barbuti e fieri, aggraziate
danzatrici, astuti mercanti, fruscii di seta, tessuti d’indaco e amaranto,
giallo zafferano e piume di pavone, che si muovono in ambienti multiformi:
città dedalo, risaie smeraldo, palazzi di arenaria rosa che risuonano del
tintinnio delle cavigliere, bazar dai profumi speziati, ma anche picchi
innevati, deserti desolati, fiumi sacri, foreste rigogliose abitate da animali
dal pensiero sottile. Una straripante umanità tutta in movimento, con le radici
nel Gange e il cuore sulle vette himalayane.
E accanto ai fasti e alle glorie delle corti, presenti nei racconti delle caste
più alte, compaiono una varietà di elementi che si condensano in alcune
categorie tradizionali appartenenti alle caste più basse quali, ad esempio: le
differenze tra uomo e donna, sia essa la sposa virtuosa che si immola sulla
pira del marito defunto, sia essa la donna comune, assai concreta; i vari tipi
umani, dall’avaro allo stolto, dal gradasso allo scaltro, dal figlio dissennato
senza un briciolo di cervello al burlone o all’astuto che trionfano sulle
difficoltà della vita; le sofferenze che accomunano tutti gli uomini, con
demoni e dei che perseguitano i poveri mortali senza dare loro tregua...
Le divisioni di casta, tanto fondamentali nella società indiana, portano a
trasferire nelle fiabe i tabù, le rivalità, i conflitti e i codici
comportamentali della realtà, con la possibilità, però, di scegliersi un lieto
fine che veda vincitrice la casta all’interno della quale si tramanda la fiaba.
Animali quali cobra, serpenti, aquile, scimmie, lucertole, sciacalli, tigri ed
elefanti occupano di sovente, nei racconti, ruoli di rilevo.
Le fiabe indiane, poi, riportano spesso reminiscenze classiche che offrono un
vitale campionario di affascinanti personaggi come i naga, creature in parte umane e
in parte serpenti; i kimpurusha,
abitanti delle montagne con il corpo umano e la testa di cavallo; i kinnara, esseri così singolari
che il loro nome è una forma interrogativa che significa letteralmente: ‘Chi è
questo, un uomo?’; irakshasa, spaventosi demoni che portano malattie
terribili come la peste, divorano gli uomini e desiderano le loro donne; i vidyadhara, esseri
soprannaturali abitanti sull’Himalaya, possessori di poteri magici; i valakhilia, mitici nani alti un
pollice che cantano inni vedici; le asparas, bellissime ninfe celesti divenute
fate nella tradizione popolare e simili, per alcune connotazioni, alle
fanciulle cigno delle saghe scandinave: somiglianze che rimandano ad un
antichissimo fondo comune fiabesco indoeuropeo.
E sopra tutto: la parola
E sopra tutto l’importanza e la potenza della parola pronunciata che in India
si incarna addirittura in una divinità: Vac, il discorso, che in quanto inno –
preghiera o formula magica – può indurre gli dei a concedere doni, e in quanto
maledizione, soprattutto per bocca di un brahmano, conduce alla rovina sicura.
Sono parimenti divinità in sembianze umane alcuni incantesimi, in particolare i vidya (i saperi) della letteratura jaina,
immaginati come dee col cui possesso si diventa esseri divini, vidyadara ovvero
‘portatori di saggezza’ dotati di capacità sovrannaturali.
In India la parola è efficace.
In India, ad esempio, le formule di benedizione e di maledizione non si sono
scolorite, come in Europa, trasformandosi in semplici espressioni di cortesia o
di sdegno. Hanno invece un effetto magico. Nessuno di noi immagina niente del
genere quando augura ‘Salute!’ a chi ha appena starnutito. L’indiano che, nella
medesima circostanza, esclama ‘Jiva!’ (Che tu viva!) è sicuro di
impedire al soffio vitale di sfuggire dal naso di colui che starnutisce.
Una parola pronunciata che però, in India, non è immobile, per sempre definita,
o che esclude il cambiamento, ma una parola che sa sempre accogliere ogni nuova
varietà per comprenderla in sé. Una parola che, come già detto, sa celebrare
una fede nella coesistenza di tutte le possibilità senza che esse si debbano
per forza escludere a vicenda. Una parola il cui significato sa rinascere ogni
volta che viene pronunciata.
Ecco allora l’importanza del racconto orale grazie al quale le storie rinascono
e si trasformano passando di padre in figlio, di villaggio in villaggio,
attraverso un tempo ciclico fatto di avvenimenti che si ripetono,
apparentemente diversi, ma fondamentalmente uguali. E la fluidità della
tradizione indiana, sia orale che scritta, è soltanto uno degli aspetti della
più generale fluidità dell’atteggiamento indiano verso tutti i tipi di verità.
Il cantastorie può recitare un mito in un certo modo, per essere poi interrotto
da qualcuno fra il pubblico che, ascoltando il racconto, dice: “Noi l’abbiamo
sentito diversamente”. E quando viene narrata la seconda versione, il
cantastorie risponde: “Anche questa è vera, ma la tua versione è accaduta in
una diversa era cosmica”, a significare che lo stesso evento si può ripetere
più e più volte, ogni volta in modo leggermente diverso. E questo garantisce
alle storie raccontate la possibilità di sopravvivere ai cicli cosmici,
noncuranti del fatto che le pagine delle loro versioni scritte siano divorate
dalle formiche o marciscano al caldo umido del monsone.
La trasformazione dell’universo viene così assecondata, e l’immaginazione
dell’uomo viene fatta salva, perché ricrei ogni volta da sé l’ordine del mondo,
in una nuova storia da raccontare. È così che, dietro un’India, ecco che ne
appare un’altra, e poi un’altra ancora: alla ricerca di un’essenza che è
l’identità tra l’unità e la molteplicità, tra l’infinitamente grande e
l’infinitamente piccolo, tra l’albero e il seme, tra l’universo e l’uomo.
Fiabe indiane
La volpe e il bramino................
La lepre e il leone....................
Il re degli uccelli.----...............
Gli apprendisti maghi...............
La creazione degli animali.........
La regina delle api...................
Fiabe delle Terre d’India raccontate da Luigi Dal Cin:La nascita delle montagne Dai “Brahmana”, opere in prosa di antica epoca vedica, per il culto brahminico – India .
La storia del vecchio Markandeya Dal Mahabharata, imponente poema epico della letteratura sanscrita, in massima parte metrico– India.
Gli animali, gli uomini e la gratitudine Dal Panchakhjanaka, ‘manuale composto da cinque racconti’ opera di letteratura antica jaina.– India
L’Oceano, la sua sposa, l’albero e la canna Dal Mahabharata, imponente poema epico della letteratura sanscrita, in massima parte metrico. – India
Gli elefanti volanti Orissa – India
La scatola delle elemosine Dal Panchakhjana Vartika, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto gujarati. – India
Il gomitolo di cotone Sri Lanka
La forza della lealtà Dal Panchakhjana Hitopadesha, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto hindi – India
Il mago imbroglione Nepal
Sakdal, il ministro del re Dal Suva Bahuttari Katha, ‘I 72 racconti del pappagallo’, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto gujarati – India
La zia della tigre Dal Panchakhjana Vartika, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto gujarati – India
La Valle dei Demoni Rajastan – India
Il sogno e la realtà Sri Lanka
Il chicco di grano perduto Nepal
Il dono del cobra Dal Panchakhjana Vartika, opera che raccoglie racconti popolari in antico dialetto gujarati – India
Bhagavad Gita
Il canto del Beato
http://www.guruji.it/bhagavadgita/gita.htm
Il Potere di Adesso - Libro di Eckhart Tolle
Vivere lo Yoga
La dieta dell'illuminazione
Secondo SHARON GANNON, la parte più importante della vostra pratica yoga è lo stretto rispetto di una dieta vegetariana, una dieta priva di inutile crudeltà, dolore e ingiustizia.
Sharon Gannon offre verità e saggezza da una tradizione di pratica spirituale vecchia di migliaia di anni e spiega come applicare queste pratiche all'interno del nostro stile di vita moderno.
Utilizzando i suoi studi della tradizione Vedica, Sharon Gannon spiega come le pratiche yoga siano storicamente e strutturalmente legate ad uno stile di vita etico e vegetariano.
Parti integranti l'uno dell'altro, sia lo yoga sia il vegetarianismo formano una struttura per il bilanciamento fisico e spirituale e quando sono praticati insieme spianano la via non solo alla salute fisica, ma anche alì'llluminazione Spirituale.
"Gli scritti di Sharon nascono dal suo impegno nel mettere in pratica ciò che afferma. Lei è l'incarnazione vivente dell'altruismo che insegna e ha avuto un profondo impatto sulla mia vita sia di musicista sia di pacifista. Mi incoraggia con il suo esempio ad essere coerente con ciò che predico in ogni respiro ed in ogni sorriso."
MICHAEL FRANTI Musicista, autore di: Food For The Masses
INDICE
- Capitolo 1: Asana
La nostra connessone con la Terra e tutti gli esseri
- Capitolo 2: Ahimsa
Non dannosa
- Capitolo 3: Satya
Dire la verità
- Capitolo 4: Asteya
Non rubare
- Capitolo 5: Brahmacharya
Buon sesso
- Capitolo 6: Aparicraha
Avidità, eccesso e povertà
- Capitolo 7: Vivere la vita di un Jivanmukta
Attivismo spirituale
AUTORE
Sharon Gannon sta cambiando il modo in cui le persone vedono la spiritualità, la vita, loro stesse, gli altri, gli animali e l'ambiente. Insieme a David Life, è ia creatrice del metodo Jivamukti Yoga, un percorso verso l'illuminazione che si sviluppa attraverso la compassione per tutti gli esseri. Benedetta dai suoi maestri Shri Brahamananda Sarasvati, Swami Nirmalananda e Sri K. Pattabhi Jois, è pioniera nell'insegnamento dello yoga sotto forma di "Attivismo Spirituale". Il vegetarianismo è il principio fondamentale dello Jivamukti Yoga. Lo Jivamukti Yoga è riconosciuto come una delle nove forme di hatha yoga praticate oggi nel mondo. La rivista Yoga Journal l'ha definita un'innovatrice e Vanity Fair le ha dato il merito di avere reso lo Yoga "cool" e di "tendenza". Sharon Gannon ha scritto molti libri e prodotto molti DVD e CD di yoga ed è stata la vincitrice del "Compassionate Living Award" nel 2008. Quando non è in viaggio e non insegna yoga, vive in un santuario nei boschi nel nord dello stato di New York.
Yoga e ayurveda
Autoguarigione e autorealizzazione
Prezzo 15,90 €
ISBN: 8880932233
Pagine: 320 pp. - 17 x 22 illustrato
Contenuti del libro:
Yoga e ayurveda
Esiste una stretta relazione fra Yoga e Ayurveda, ambedue
discipline olistiche fondamentali. Esse hanno in comune il concetto
della totalità somatica e psicospirituale. Lo Yoga si focalizza
sull'integrazione spirituale per mezzo della trascendenza, culminando
nell'autorealizzazione. L'Ayurveda si focalizza invece sull'integrazione
psicosomatica attraverso la cura della salute nella sua totalità, la
quale culmina nell'apertura verso la trascendenza e l'autorealizzazione.
In Occidente, lo Yoga e l'Ayurveda godono di grande popolarità, ma
entrambe le discipline sono soggette a considerevoli distorsioni. Questo
libro si presenta come una chiara e completa raccolta di insegnamenti
profondi e ben esposti, che fanno luce su queste due discipline e ne
sottolineano i punti di connessione, mostrando come ambedue siano valide
per le pratiche spirituali odierne. Lo Yoga e l'Ayurveda, insieme,
costituiscono un approccio completo per apportare ottima salute,
vitalità e maggiore consapevolezza.
Riscoprendo gli antichi metodi di trasformazione che agiscono attraverso
diete, rimedi erboristici, esercizi yoga e tecniche di meditazione,
possiamo imparare a padroneggiare l'arte interiore di controllare le
energie sottili, esplorando temi inediti che spaziano dall'agni yoga ai
segreti dei cinque prana, dall'alchimia yogica alla kundalini, dal soma
al pratyahara, dal dharma al mantra purusha. Yoga e Ayurveda, unite, ci
permettono così di scoprire i poteri segreti del corpo, del respiro, dei
sensi, della mente e dei chakra.
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