Brené Brown - Daring Greatly
Articolo di Evira Serra sull’ultimo saggio di Brené Brown che rivaluta quelli che sanno ammettere i propri limiti. Personalmente lo trovo vero e decisamente raro nella mia esperienza quotidiana di lavoro.
Quante volte in ufficio sentiamo dire: «Non lo so»; «Ho bisogno di aiuto»; «Per me è importante»; «Non sono d’accordo: ne possiamo parlare?»; «Mi fai vedere come si fa?»; «Vorrei avere un feedback»; «Me ne prendo la responsabilità»; «Mi dispiace»; «Mi sento così»? Poche. E quasi mai da un capo, costantemente afflitto dalla sindrome di John Wayne, l’uomo forte e sicuro che sa sempre cosa fare e come farlo, geneticamente modificato per non sbagliare.
Eppure dice esattamente il contrario l’ultimo saggio della ricercatrice americana Brené Brown, Daring Greatly, Osare in grande (in Italia sarà tradotto da Castelvecchi nella collana Ultra), dove insiste sul concetto a lei caro della vulnerabilità, al quale aveva già dedicato I doni dell’imperfezione appena uscito nelle nostre librerie. L’argomento interessa, visto che oltre sei milioni di persone hanno seguito sul sito web di «Ted Talk» la conferenza del 2010 in cui l’autrice parlava in modo buffo ed empatico dei suoi studi (il video è il più «cliccato» dopo il discorso di Steve Jobs all’Università di Stanford, si può guardare anche su CorriereTv).
Per Brené Brown la vulnerabilità è la chiave di tutto ciò che ha valore sul posto di lavoro: coraggio, creatività e connessione con gli altri. Malgrado la possieda soltanto il 90 per cento dei manager da lei intervistati. «Cosa significa? Che se sono nuovo e un cliente mi chiede qualcosa che non so devo dirlo?», è la domanda più frequente che le rivolgono. «Sì e no», replica lei. «L’ideale è ammettere: "In questo momento non so rispondere, ma glielo saprò dire al più presto; voglio essere sicuro di darle l’informazione giusta"».
Il vero problema, come spiegato ne I doni dell’imperfezione, è che a ogni livello della piramide professionale è in agguato il perfezionismo. Eppure nessun atleta si allena per non sbagliare mai; piuttosto per migliorare. «Per vincere la spinta a essere perfetti, dobbiamo essere capaci di riconoscere la nostra vulnerabilità alle esperienze universali di vergogna, giudizio e biasimo», scrive. Per riuscirci, bisogna saper fissare dei limiti: per esempio non voler fare tutto, non rendersi reperibili 24 ore su 24 sette giorni su sette, imparare a dire no.
Impresa non facile nel «saloon» di John Wayne. Ma umanissima, perché nessuno di noi è dotato di corazza antiproiettile. E se «il perfezionismo è uno scudo di venti tonnellate che ci trasciniamo dietro pensando che ci proteggerà», in realtà "è proprio ciò che ci impedisce di spiccare il volo". Andrea Castiello d’Antonio, psicologo del lavoro autore di Psicopatologia del management, interviene: «Il vulnerabile è visto come uno piagnucoloso, che cerca sempre di proteggersi. Invece no, è l’opposto! È la persona adulta nella quale l’identità personale e l’identità organizzativa coincidono, che fonda i rapporti sull’empatia, che è capace di confrontarsi con gli altri, di delegare, di fare squadra. Purtroppo, più si sale nella piramide aziendale più gli esseri umani si trasformano in macchine. Il nuovo totem è raggiungere l’obiettivo, a qualunque costo. E a me vengono in mente i nazisti che al processo di Norimberga si giustificavano dicendo che avevano eseguito gli ordini». Claudio Belotti, già consulente per Bulgari, Gruppo Armani, Google, racconta che «il leader diventa tale quando ha le paure che abbiamo noi, però le affronta; ha i problemi che abbiamo noi, però li gestisce. Insomma, ci prova: e proprio perché è umano riesce ad appassionarci e a coinvolgerci. Ai miei corsi dico sempre: non cercate di essere perfetti, siate umani». Non a caso la stessa Brown in Daring Greatly cita Theodore Roosevelt: «Il vero credito va a colui che sta nell’arena e, con il volto sporco di polvere, sudore e sangue, lotta con coraggio». E di fronte alla basita columnist del Financial Times che la scorsa settimana provava a ribattere che il posto di lavoro è il luogo per eccellenza dal quale sono banditi gli stati d’animo più autentici, l’autrice non si è scomposta: «Non chiedo alla gente di indossare il cuore sopra la camicia. I leader vulnerabili sono quelli che sanno dire: "Ehi, abbiamo un problema, non lo posso risolvere da solo, mi serve l’aiuto di tutti"».
Chi sa rischiare, incoraggia gli altri a osare. Per Miranda Sorgente, fondatrice di Love Management, che dal 1994 motiva i professionisti, «se il capo nasconde di avere dei problemi, ancor meno potrà farlo un collaboratore. Così si innesca il circolo della finzione: coprire l’errore con bugie. Non voglio dire che l’ufficio del capo debba diventare un consultorio! Ma la vulnerabilità non può trasformarsi in un lamento a ciclo continuo, perché non serve a nessuno».
Casomai servisse un testimonial credibile, può bastare Barack Obama. Con lui ha trascorso sei mesi Michael Lewis, prima di scriverne un lungo ritratto per Vanity Fair. Il giornalista ha poi raccontato al New York Times di quando Obama ha ammesso che il suo lavoro richiede un «grande contributo emotivo». E ha ricordato quella sera in cui, al termine di una giornata molto pesante, il presidente si è messo a piangere guardando un film. La Casa Bianca ha chiesto che questi dettagli sparissero dal pezzo. Peccato.
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