martedì 28 febbraio 2012

XVI - La Storia di Nangsa Obum


esperienze tra oriente e occidente
XVI - La Storia di Nangsa Obum
Fabrizio Uderzo

La regina di Rinang, la bella Nangsa, era morta, ma nessuno riusciva a crederci. Il re Dragchen, suo suocero e Dragpa Samdrub, suo marito, accorsero alle grida della balia del piccolo Lhau Darpo e prendendola per le braccia cercavano di farla alzare dicendo:
”Gu
arda la luna che sembra scomparire come se ci fosse un’eclissi.
È solo una nuvola che ha coperto la luna perché oggi non è giorno di eclissi.

Alzati Nangsa, amica preziosa!
Guarda il fiore nel giardino.
Sembra vecchio quando grandina,
ma non può morire finché non arriva l’autunno.
Fanciulla, non dormire, alzati!
È possibile che tu senta dolore nel corpo,
ma non puoi essere morta!”
Ma Nangsa non dava risposta, rimaneva fredda. Era davvero morta. Allora organizzarono un grande funerale, fecero molte offerte e successivamente ricorsero alla divinazione per sapere come avrebbero dovuto comportarsi. La risposta fu che la vita di Nangsa non era finita e che sarebbe tornata a vivere. Avrebbero dovuto portare il suo corpo su una collina a est e dopo sette giorni non avrebbero più dovuto curarsene. Essi portarono il corpo sulla collina a est e lo lasciarono protetto dalle guardie.
La mente di Nangsa abbandonò il corpo e fu nel Bardo (letteralmente “in mezzo” il bardo sta a indicare il tempo che va dalla morte alla successiva rinascita. ndr) dove incontrò il Signore della Morte. Nangsa era spaventata al punto da venir meno e chiedeva compassione con le mani giunte. Il Signore della morte era accompagnato da due divinità, una bianca e una nera, che contarono le azioni positive e quelle negative con sassolini bianchi e neri. I neri erano molto pochi, in numero molto minore dei tanti sassolini bianchi. Allora Nangsa guardò nello specchio del Dharma e scoprì di essere un tipo speciale di Dakini. Il Signore della Morte le disse:
”Io sono il Signore della Morte e applico la suprema legge del karma. Sono la personificazione della compassione. Tu, Nangsa non sei una donna normale e non hai molto karma negativo. Sei l’apparizione del corpo di una Dakini. Anche se il tuo corpo è quello di una dea, la tua mente non ne è condizionata e può superare tutto. Se la nostra mente è sempre rivolta al Dharma, si raggiungerà l’illuminazione. Occorre fare la pratica esterna e la pratica interna. Ora devi ritornare, entrare di nuovo nel tuo corpo e, come ‘delog’ (chi muore e risorge) aiutare gli altri”.
Nangsa fu molto felice, ricevette la benedizione e, preso il sentiero bianco, rientrò nel suo corpo e tornò a vivere.
Quando si svegliò sulla collina a est, si ritrovò coperta di stoffa bianca pregiata, seduta nella posizione di meditazione dai sette aspetti (la classica postura con le gambe incrociate e la spina dorsale eretta, detta del loto). Cadde una pioggia di fiori, mentre Nangsa faceva la pratica di Vajra Yogini, circondata di luce d’arcobaleno e intonava un canto rituale.
Nel frattempo il piccolo Lhau Darpo piangeva la morte della madre. Non mangiava né dormiva più. Dalla finestra guardava verso la collina a est e diceva:
”Il nonno ha ucciso mia madre mentre io ero con lei. Ora questo bambino è come un uccellino che è stato abbandonato sulla terra. Se mia madre potesse udire il mio triste canto come sarei felice!”.
Ma proprio in quel momento arrivarono di corsa le guardie e annunciarono che Nangsa era tornata in vita, avvolta in stoffa bianca, circondata di luce d’arcobaleno e in mezzo a una pioggia di fiori.
Il suocero Dragchen e Draga Samdrub pieni di rimorso andarono da lei per chiederle di ritornare a Rinang:
”Ascolta Nangsa, ascolta il re Dragchen e suo figlio, che è tuo marito!

Il tuo corpo sembrava un giovane bambù. Non sapevamo che fosse il corpo di una Dakini. Ci spiace non aver mantenuto le promesse.
La tua mente è come uno specchio d’argento, come beatitudine e vuoto.
Dimentichi di ciò abbiamo fatto molte cose stupide.
Ti chiediamo scusa! Abbiamo agito verso di te dominati dall’ignoranza.
Perdonaci, portaci dove vuoi”.
Nangsa, ritornata a vivere in questa dimensione, pensava solo al disgusto del samsara  e così rispose:
“Ascoltate nobili di Rinang, padre e figlio!
Prima di morire vivevo in una casa lussuosa.
Quando ho manifestato l’impermanenza
guardavo il mio corpo sulla collina a est ed ero molto triste.
Se penso alla mancanza di senso della vita samsarica,
non mi sento felice a casa vostra!
Quando ero viva, vivevo con molti servitori,
ma quando sono morta me ne sono dovuta andare da sola.
Allora tutto ciò non ha significato!
Quando ero viva, voi davate ascolto agli altri,
ma quando sono morta avete confessato le vostre colpe e avete chiesto perdono.
Dalle amicizie mondane nascono liti.
Re Dragchen, non ho attaccamento a te!
Quando ero viva, lavoravo molto per mio figlio,
ma quando sono morta non ha potuto aiutarmi.
Era come una fune che mi tirava nel samsara.
Dai figli di questo mondo nascono problemi.
Lhau Darpo, io non ho attaccamento a te!
Io me ne andrò a praticare il Dharma
Se ti lascio ci sono molte ragazze giovani.
Puoi sposare una di queste e restare nell’inferno del samsara!”.
A quelle parole tutti rimasero immobili, incapaci di tornare a casa. Poi il figlio, Lhau Darpo salì sulle ginocchia della madre e disse:
“Madre Nangsa, se sei morta e sei tornata a vivere, ti prego, prendimi con te!
Un bambino senza mamma è come un monaco senza maestro, come un regno senza re!
Ti prego non andartene senza di me!
Sono un bambino separato dalla mamma!
Un uccello senza ali cercherà di volare, ma continuerà a cadere.
Sono in un posto senza erba e senza acqua. La gente, anche se passerà, non si fermerà.
Sono come un lebbroso, nessuno vorrà starmi vicino. Senza di te sarò così.
Pensaci e non lasciarmi!”.
Nangsa provò molto dispiacere vedendo il figlio in questo stato e cominciò a piangere, ma poi capì che se fosse tornata a palazzo sarebbero sorti altri ostacoli. Mise una mano sulla testa del bambino e disse:
”Ascolta il mio canto Lhau Darpo!

Sono morta e sono tornata in vita, così puoi essere felice.
Sono pochi quelli che muoiono e tornano a vivere
come delog, cioè per aiutare gli altri.
Io sono come una montagna nevosa e tu sei come il leone delle nevi.
Non essere attaccato a me!
Io sono solo come una qualunque montagna nevosa.
Così mi posso sciogliere al sole e questo è molto pericoloso!
Tu sei come un’aquila d’oro, non essere attaccato a me!
Io sono solo una piccola collina rocciosa, un fulmine mi può spazzare via.
Tu sei un bel cerbiatto, non essere attaccato a me.
Io sono come una collina erbosa.
Ci solo altri prati migliori.
Quando viene l’autunno mi faccio paurosamente piccola.
Tu sei una bell’ape d’oro,
non essere attaccato a me.
Io sono soltanto un fiore qualsiasi.
Qui vicino ci sono grandi fiori di loto.
Io posso essere distrutta dalla grandine.
Io posso morire in qualunque momento.
Non essere attaccato a me.
Ascolta le mie parole e tienile bene a mente, Lhau Darpo!”.
Così parlava Nangsa al piccolo figlio che la ascoltava sconsolato e che non volendo staccarsi da lei. Così l’implorò:
“Se mio padre e mia madre non avessero creato il seme del mio essere,
come avrei potuto diventare una fune che li tira nel Samsara?
Se io, il leone delle nevi, non resto con te, montagna nevosa,
anche se non verrò ucciso dai lampi, la mia criniera azzurra non potrà crescere!
Quando avrò la criniera azzurra, andremo assieme a praticare il Dharma.
Intanto il sole non ti scioglierà, tu puoi restare all’ombra.
Se io, il piccolo Lhau Darpo, non resterò con te, madre amorevole,
non potrò crescere.
Finché non sarò capace di cavarmela da solo, non lasciarmi!
E quando sarò grande abbastanza,
potremo andarcene insieme a praticare il Dharma.
Intanto tu non morirai, perché faremo una iniziazione speciale.
Il tuo piccolo figlio-amico sta piangendo
e se tu non hai compassione e non mi presti ascolto,
questo non è Dharma, madre!”.
Quando Lhau Darpo finì la sua canzone, tutti, e soprattutto il marito, cominciarono a pregare Nangsa di tornare con loro. Tutti nel regno la imploravano di ritornare. Persino Ani Nyemo era dispiaciuta e le chiese perdono pregandola di fare ritorno, e giurò che d’ora in avanti non avrebbe più creato problemi. Nangsa pensò che tutto il regno le stava chiedendo di rimanere, che il figlio Lhau Darpo, sebbene così piccolo, già era così saggio e parlava di Dharma. Ani Nyemo aveva giurato di fronte a tutti. Nangsa pensò che tutto questo era una benedizione del cielo e acconsentì a ritornare fra loro e tutti partirono verso casa. Cadde una pioggia di fiori e si udirono tre colpi di tuono. Il suo corpo era l’emanazione del Buddha, la sua voce era il suono vuoto dell’energia primordiale, la sua mente era beatitudine e vuoto. Nangsa aveva deciso di tornare per insegnare il Dharma al suocero, al marito e soprattutto ad Ani Nyemo e parlò loro del prezioso corpo umano, dell’impermanenza, del karma, dei benefici del Dharma e di molte altre cose. Nonostante ciò, essi avevano così tante tracce karmiche negative che non cambiarono e Nangsa diventò di nuovo molto triste, sia per non essere riuscita a convertirli all’insegnamento del Buddha, sia perché si vedeva costretta a rimanere e così non poteva praticare il Dharma nelle forme che desiderava. Cominciò di nuovo a non mangiare e a non dormire più e al marito che con grande gentilezza le chiedeva il perché di quella tristezza rispondeva:
“Ascolta Dragpa Samdrub e ascoltate anche voi, Dragchen e Ani Nyemo.
Non sono triste per cose che riguardano questo mondo, né ho malattie causate dallo squilibrio dei quattro elementi. Non ho nemmeno desideri.
Sono triste solo perché non mi lasciate andare a praticare il Dharma.
Anche se questa stanza sembra un regno celeste e il cibo ha il sapore dell’amrita (il corrispondente dell’ambrosia nella mitologia greca. ndr), anche se voi, parenti, foste degli dèi, mi sentirei ancora triste. Anche se Lhau Darpo fosse un principe divino, non avrei attaccamento a lui. Se voi non volete praticare il Dharma, almeno lasciatemi andare, se non a praticare il Dharma, a trovare i miei genitori”.
Il re pensò che se l’avessero ancora contrariata avrebbe di nuovo cominciato a parlare di volersene andare a praticare il Dharma, a fare ciò che non doveva e a non fare ciò che doveva e considerando il fatto che da quando era arrivata per le nozze non era più ritornata dai suoi genitori, permise che Nangsa, assieme al piccolo figlioletto andasse a trovare i vecchi e lontani genitori.
Il cammino che la portava verso la sua casa natale era molto lungo e ad un certo punto doveva attraversare un fiume. Il barcaiolo che doveva traghettarla dall’altra parte, quando seppe che era la regina di Rinang che era morta e tornata a questa vita per aiutare gli altri, le si prostrò ai piedi e le chiese di cantare una canzone….
“Come sarebbe bello se i coralli e l’ambra che ornano il mio collo fossero protettori del Dharma!
Come sarebbe bello se il bracciale di conchiglia che porto al polso destro fosse la conchiglia che raduna i monaci del monastero!
Come sarebbe bello se il bracciale di diamanti che porto al polso sinistro fosse una mala (una specie di rosario) per recitare mantra!
Come sarebbe bello se tutti gli anelli che porto fossero saggezza e metodo!
Come sarebbe bello se lo specchio d’argento che porto al fianco destro fosse il mandala dei Campi di Buddha!
Come sarebbe bello se il mio scialle fosse quello di una monaca!
Se il mio grembiule significasse che io vado a praticare il Dharma come sarei felice!
Ma per come stanno andando le cose mi sento così triste!”
Per la dolcezza della sua voce e la chiarezza e la semplicità delle sue parole, la gente che l’aveva ascoltata si prostrava a lei e ognuno promise di non creare più karma negativo e di compiere buone azioni.
I genitori la videro arrivare da lontano e le corsero incontro, l’abbracciarono e le cantarono affettuose canzoni di benvenuto e le chiesero come stesse e Nangsa rispose:
“Voi siete coloro che mi hanno dato la mente e il corpo, ascoltatemi!
All’aquila hanno lanciato molte frecce,
ma essa è riuscita a sopravvivere
 ed è felice di vedere la montagna rocciosa.
Il piccolo cervo è stato inseguito da molti cacciatori,
ma le sue corna sono affilate ed è felice di rivedere la sua foresta natale!
Il pesciolino d’oro è stato tentato da molti ami,
ma è stato prudente e così è felicemente tornato al suo vecchio laghetto!
Nangsa è stata uccisa per sbaglio,
ma è tornata in vita.
È molto contenta di rivedere voi, suoi genitori!”
Allora Nangsa raccontò tutto ciò che era accaduto, come era stata uccisa, come aveva visitato il mondo dei morti e infine era ritornata nel suo corpo diventando “delog”.
I genitori piansero e risero, le tennero la mano e dissero che mai avrebbero pensato che la loro figlia sarebbe diventata una “delog”.
Un giorno Nangsa passando per la stanza delle tessitura vide al telaio la stoffa che aveva lasciato incompiuta quando era partita e decise di finirla e alla madre che le faceva notare che tale lavoro avrebbe disonorato una regina come lei rispose: “Perché dovrei vergognarmi di lavorare? Quello che è vergognoso è che possiedo un prezioso corpo umano e non sto praticando il Dharma. Voi mi vedete come la regina di Rinang, ma io mi considero la più umile delle persone. Non posso aiutare i miei genitori e non posso praticare il Dharma. Qualsiasi lavoro cominciato deve essere portato a termine. Questa volta non chiedo aiuto a nessuno. Faccio da me!”
Quando la madre comprese che la Nangsa era proprio decisa a lasciare tutto per andare
a praticare il Dharma le disse:
”Tu che mi sei cara come il mio cuore, Nangsa Obum, ascolta!
Vorresti scappare via e abbandonarci per praticare il Dharma?
Vorresti lasciare tuo marito, abbandonare tuo figlio,

lasciare il palazzo per andare a praticare il Dharma?
Se vuoi veramente praticare il Dharma
ci sono molte difficoltà.
Se la pensi così, perché hai messo al mondo un bambino?
Non voler fare ciò che non sei in grado di fare, e cioè praticare il Dharma.
Fa’ quello che sai fare, sii una donna di casa!”
Nangsa rispose:
“Madre premurosa, Nyangtsa Seldron, ascoltami!
Ascolta la voce di tua figlia!
Il sole splende ai quattro angoli dell’universo.
Quando il sole smetterà di splendere,
io smetterò di voler praticare il Dharma e me ne resterò a casa.
Ma finché il sole continua a splendere, anch’io andrò verso il Dharma.
Se la luna smetterà di crescere e di calare,
se il fiore di loto smetterà di sbocciare d’estate e di appassire d’inverno,
se il fiume si fermerà a invertirà il suo corso,
quando le bandiere sacre sulla montagna smetteranno di sventolare
resterò a casa e non praticherò il Dharma.
Tu ora sei vecchia. Se ridiventi giovane non andrò a praticare il Dharma.
Ma se ciò non accadrà non resterò a casa. Me ne andrò a praticare il Dharma!”.
   La madre montò su tutte le furie e l’apostrofò: “Noi ti abbiamo trattata così bene finché eri qui e ora non ci vuoi dare ascolto. Dirti belle cose è come fertilizzare un terreno che non reagisce. Allora non dispiacerti se la grandine si abbatterà su di te. Sei come un agnello che non vuole farsi tosare. Non avere rimpianti se morirai! Tu che hai un bel corpo e una bella voce non vuoi far felice il re di Rinang e non ascolti i tuoi genitori. Non pensare di essere mia figlia o che io sia tua madre, finché ti comporti così male!”.
E, presa una manciata di cenere, gliela gettò in viso e stava per batterla con un bastone, ma le amiche di Nangsa la fermarono. Poi la buttò fuori di casa, se ne tornò dentro e non la fece più entrare.          
                                                                                                                         (continua)
[Le immagini di questa pagina, dall`alto verso il basso: notte di luna in Tibet; statua di Yama, il signore della morte; bambino tibetano; statua tibetana di cerbiatto; uccelli sul lago Qinghai, in Tibet; mandala; bandiere di preghiera tibetane]








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