Pratyāhāra è quindi uno stato mentale nel
quale la mente è "disconnessa" dai cinque sensi. Praticare il
prānāyāma, o qualsiasi altro metodo di controllo del respiro e
della forza vitale, senza avere ben chiaro in mente lo scopo per
cui si stanno facendo tali pratiche, ben difficilmente porterà
al raggiungimento dello stato mentale di pratyāhāra. Patanjali
afferma che lo scopo del prānāyāma deve essere pratyāhāra, il
fare ritornare la mente all' interno. Tutti i ricercatori
spirituali che perseguono lo scopo dell' Auto-Realizzazione
devono essere in grado di praticare il prānāyāma in modo tale da
riuscire ad ottenere, in poco tempo se non immediatamente,
l'interiorizzazione della mente. Molti si accontentano di
osservare solo le leggi di yama e niyama, ad altri è sufficiente
la pratica delle sole āsanas mentre altri ancora praticano
unicamente il prānāyāma. I migliori risultati e lo stato mentale
del pratyāhāra si ottengono con la pratica combinata dei quattro
passi appena menzionati.
A qualunque attento osservatore o studioso di
Yoga non sfuggirà di notare che gli otto gradini dello Yoga, già
menzionati più volte, siano raggruppabili sostanzialmente in due
categorie: i primi quattro, che sono pratiche da mettere in
atto, e gli ultimi quattro che sono invece stati mentali
interiori e/o raggiungimenti. Si possono trovare una infinità di
libri e manuali, spesso di ottima fattura, che trattano teorie e
pratiche dei primi quattro livelli dello Yoga, ma non ci sono
volumi stampati al riguardo della pratica del pratyāhāra, del
dhārana, del dhyāna o del samādhi; al massimo si trova qualche
libricino che cerca di esprimere con parole scritte ciò che in
definitiva non è scrivibile e cioè un progressivo e sempre più
alto stato dell'Anima. Questo, per sua natura, può solo essere
sperimentato.
Ad ogni singolo praticante, che conosca bene
i principi di yama e niyama, risulterà ben chiaro se stia
osservando oppure infrangendo tali principi nel compiere una
qualsivoglia azione o nell'astenersi da essa. Similmente, lo
stesso praticante, saprà con certezza di fare āsana o prānāyāma
qualora si trovi diligentemente ad eseguire posizioni Yoga
oppure cicli di respirazione controllata. Sarà anche in grado di
dare un certo grado di giudizio circa la qualità della sua
pratica. Ma molte più incertezze lo coglieranno riguardo al
potersi dire di trovarsi o meno nello stato mentale di
pratyāhāra, anche perché il solo fatto di porsi quella domanda
lo farebbe immediatamente decadere da tale stato. Risulta quindi
evidente che si trova su di una riga di confine, non marcato con
una linea netta, ma con i punti di contatto piuttosto labili ed
incerti, quasi immateriali. Ed infatti, a mio modo di vedere,
tanto il pratyāhāra quanto l' atomo segnano la zona di confine
tra spirito e materia, essendo in pratica appartenenti sia
all'una che all'altra sponda e senza essere, in sostanza, né
l'una né l'altra.
Messa in questo modo la faccenda sembra
diventare tremendamente difficile, intrappolati in un gioco
della mente tra spirito e materia da cui diventa difficile
uscire. Ma qualsiasi lungo viaggio incomincia sempre con un
piccolo passo e un piccolo passo è generalmente una cosa
semplice. Qualche volta ci sarà capitato di essere talmente
assorti in quello che stiamo facendo da non accorgerci di ciò
che ci sta succedendo intorno; se non fosse perché la direzione
della forza vitale è comunque volta all'esterno tramite gli
organi dell'azione, quella sarebbe già una forma di
interiorizzazione simile al pratyāhāra. Nel caso invece ci si
accingesse a praticare il kriya ed un fastidioso rumorino fuori
dalla finestra diventasse tiranno della nostra attenzione,
innervosendoci, nel momento in cui riuscissimo, presi dalla
pratica del nostro prānāyāma, ad essere consci ed attenti solo
alle correnti spinali ed alla visione dell' occhio spirituale,
allora ci troveremmo, senza porci tante domande, nello stato di
pratyāhāra. Il rumorino c'è ancora, i nostri timpani vibrano in
reazione ad esso ma la nostra consapevolezza non ne è
riguardata.
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I sensi | ||||||||||||||||||||||||||||||
L'uomo è perduto se la sua ragione soccombe alla
forza dei sensi. D'altra parte, effettuando un controllo ritmico sul
respiro, i sensi, invece di correre dietro agli oggetti esterni del
desiderio, si introvertono, e l'uomo si libera dalla loro tirannia.
È questo il quinto stadio dello Yoga, il pratyāhāra, in cui i sensi
sono tenuti sotto controllo. Quando raggiunge questo stadio, lo yogi
compie un minuzioso esame di coscienza. Per superare il mortale ma
attraente fascino di tutto ciò che attira i sensi, ha bisogno di
isolarsi in adorazione (bhakti) richiamando alla mente il Creatore
che ha forgiato gli oggetti del suo desiderio. Ha bisogno inoltre di
essere illuminato sul suo retaggio divino. In realtà la mente è, per
l'umanità, sia causa di schiavitù che di liberazione; porta schiavitù se è
legata agli oggetti del desiderio e liberazione se ne è lontana. Sia
il bene che il piacere si presentano agli uomini e li incitano
all'azione; lo yogi preferisce il bene al piacere mentre l'uomo
mondano, guidato dai propri desideri, preferisce il piacere al bene
dimenticando così il vero scopo della vita.
Lo yogi prova soddisfazione in ciò che egli è; sa
come fermarsi e, quindi, vive in pace. Preferisce in partenza ciò
che è amaro come il veleno, ma persevera nella pratica sapendo
perfettamente che alla fine diventerà dolce come nettare. L'uomo
mondano, desiderando soddisfare i propri desideri, preferisce ciò che a prima
vista sembra dolce come il nettare, non sapendo che alla fine sarà
amaro come il veleno. Lo yogi sa che il cammino verso l'appagamento
dei sensi tramite la realizzazione dei desideri è facile, ma conduce
alla distruzione, e che ci sono molti che la seguono. Il cammino
dello Yoga è come la lama tagliente di un rasoio, stretto e
difficile da percorrere e che pochi riescono a trovare. Lo yogi sa
che le vie della rovina e della salvezza convivono in lui. Chi ha i
propri intenti rivolti al divino è senza paura, puro, generoso e
padrone di sé, approfondisce lo studio dell'Io e rinuncerà ai frutti
del proprio lavoro, adoperandosi soltanto per il lavoro in sé. Non è
violento, ma verace e libero dall'ira; ha una mente tranquilla,
senza malizia ed è caritatevole verso tutti, poiché è libero dalla
brama. È gentile, modesto ed equilibrato; illuminato, clemente e
risoluto, libero dalla perfidia e dall'orgoglio. Una volta intuita
la grandezza della Creazione o del Creatore, la brama dell'aspirante
verso gli oggetti dei sensi svanisce e guarda ad essi da allora in
poi con indifferenza. Non prova più alcuna ansietà per il caldo o il
freddo, per il dolore o il piacere, per l'onore o il disonore e per
la virtù o il vizio. È affrancato così dalla nascita e
dalla morte, dal dolore e dalla sventura, e, liberatosi da queste
catene, guadagna l'immortalità. Non ha identità propria poiché vive
sperimentando la pienezza dello Spirito Universale: un tale uomo,
che nulla disprezza, guida ogni cosa sulla via della perfezione.
Può risultare utile, a questo punto, una
breve analisi dei sensi ( Indriyas ) in quanto tali, visti dal
punto di vista dello Yoga: l'essere umano viene considerato, in
questo caso, come un edificio con dieci porte, cinque di entrata
e cinque di uscita. Testimoniare consciamente, attivamente ed
intenzionalmente l' attività di queste dieci porte, quindi dei
dieci sensi, ed il loro modo di funzionamento è una forma
importante di meditazione attiva che porta conoscenza e
consapevolezza ai fini del raggiungimento e della realizzazione
dello stato interiore di pratyāhāra. Strettamente parlando
quindi avremo:
che essendo
attratti dall'influenza di Manas, la Mente, polo opposto
dell'Atomo spiritualizzato, formano il corpo mentale*
Questi organi,
in quanto manifestazione dell'energia neutralizzante dell'Atomo
spiritualizzato (Chitta, il Cuore), costituiscono un corpo
energetico chiamato corpo dell'energia, o forza vitale, o prānā
A rigor di
logica, in aggiunta a questi "dieci sensi" dovremmo aggiungere,
sempre secondo lo Yoga, anche le cinque categorie degli oggetti
dei relativi sensi, ma ciò è fatto solo in via conoscitiva, in
quanto questi ultimi non saranno inclusi nella breve analisi che
si andrà a fare.
Questi ultimi chiudono virtualmente il ciclo poiché unendosi
agli organi dei sensi grazie al potere neutralizzante degli
organi dell'azione, soddisfano i desideri del cuore. In una
forma molto schematica, come riportato sopra, il tutto può
apparire freddo e complicato ma se pensiamo all' esempio di un
uomo ( il nostro essere umano quindi il relativo abitante
interiore ) che vede ( senso della vista ) una bella donna (
oggetto del senso della vista ), questi agirà per mezzo di mani,
piedi, parola e possibilmente anche degli organi riproduttivi (
organi dell'azione ) per cercare di soddisfare i desideri del
cuore. L'esempio appena riportato può risultare molto grezzo ed
improprio ma credo che renderà benissimo l'idea. Non è tuttavia
un mezzo idoneo al raggiungimento del pratyāhāra in quanto
implica che ci siano alcune porte aperte e l'energia vitale, o
prānā, non è di conseguenza interiorizzata ma è diretta verso
l'esterno.
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Osservazione dei sensi durante l'attività | ||||||||||||||||||||||||||||||
Il processo di interiorizzazione inizia, come si
sarà già capito, con il pratyāhāra, cioè con
l'inversione della corrente della forza vitale, o prānā, lungo le
direttrici dei sensi. L'osservazione di questi attributi è quindi
il primo passo verso la conoscenza di Sé, o Auto-Realizzazione:
questi dieci attributi hanno in comune il fatto di essere visti
semplicemente come porte; sono soltanto porte, o di entrata o di
uscita. Il fatto di osservarli durante la vita quotidiana, azione
che potremmo definire come "meditazione attiva" porta a diventare
sempre più consapevoli di sé, dell' abitante interiore. Si riesce
progressivamente a percepire come questo abitante interiore, che
siamo noi stessi, si relaziona con il mondo esterno per mezzo dei
dieci strumenti dei sensi. Procedendo gradualmente si potrebbe
arrivare, esercitandosi opportunamente tramite l'auto-osservazione,
alla separazione discriminativa dei dieci sensi per giungere infine
alla piena consapevolezza di essi. Da qui, data per scontata una
conoscenza di massima dei Chakra e della loro collocazione lungo il
canale spinale, si può passare a stabilire le corrispondenze di
ciascun senso ( o coppia di essi a causa della dualità ) con il
relativo chakra, o centro di energia. Tutto questo per arrivare a
discriminare la posizione di meditazione, il processo del meditare e
le azioni che si fanno o non si fanno durante la meditazione stessa,
quindi per rendere possibile il raggiungimento di uno stato
interiore, nel nostro caso di adesso, il pratyāhāra.
La mente,
che opera attraverso il Kutastha, il sesto chakra, il quale
è sperimentato nel centro tra le sopracciglia, è il centro
di coordinamento dei cinque chakra sottostanti, che in
definitiva dipendono da esso. Nel Kutastha quindi, la mente
è, sia il contenitore delle informazioni di conoscenza
importate dalle cinque porte di entrata degli organi dei
sensi ( Jnanendriya ) e delle loro controparti fisiche, sia
il coordinatore delle istruzioni date ai cinque organi di
azione ( Karmendriya ) ed alle loro controparti fisiche.
Infine la
coscienza, che opera attraverso sahashrara, il settimo
chakra, provvede a fornire l'energia necessaria alla mente
per operare e, secondo le necessità, agli altri cinque
chakra per mezzo della batteria di energia rappresentata dal
midollo allungato o Bocca di Dio.
Con la conoscenza, la comprensione e la messa
in atto di queste nozioni sotto forma di processi si può
arrivare a padroneggiare il fatto dello stabilire a volontà un
determinato stato interiore. Si è al timone della nave. Può a
questo punto essere d' aiuto l'analogia di considerare i sensi
come un guanto e la coscienza come la mano; ritirare i sensi
all' interno diventa quindi come togliere la mano dal guanto.
Quando i sensi sono ritratti ci trova di fronte alla mente in
persona, nel punto cioè da cui parte la reale pratica della
concentrazione, che ci dovrebbe poi portare alla meditazione ed
alla supercoscienza.
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Analisi dell'atto meditativo | ||||||||||||||||||||||||||||||
Quando ci si appresta a praticare, come insegna
Patanjali, si sceglie una posizione ferma. Questo fa sì che buona
parte degli organi di azione siano posti in uno stato di inattività,
quindi ritratti o ritraibili. A meno che un Mantra non venga cantato
ad alta voce, fatto più frequente ad inizio meditazione per produrre
una certo grado di interiorizzazione, si tace, per porre in stato di
inattività il senso d'azione della parola. Gli occhi vengono chiusi
e talvolta, quando si cercano di udire i suoni interiori, si
chiudono anche le orecchie. Alcune scuole usano particolari bendaggi
per chiudere le orecchie e gli occhi contemporaneamente. Non si
mangia e le sensazioni tattili ed olfattive vengono rese inattive.
Tutto si ritrae all' interno e se tutte le porte sono chiuse a
dovere, come anticipato prima, ci si trova di fronte alla mente.
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...che "tradotto"
nei termini del Buddha
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venerdì 3 novembre 2023
Una breve analisi dei sensi ( Indriyas ), visti dal punto di vista dello Yoga
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