lunedì 17 marzo 2014

Due o tre cose che possiamo imparare da un incidente aereo: La Comfort Zone

Uno studio afferma che solo il 2 o 3% della popolazione
possiede e pratica una disposizione mentale – o come si dice meglio in
Inglese un “mindset” – rivolta all’uscita dalla zona di comfort.
Masochisti?

Non necessariamente. Ma viene da chiedersi: “Se questa zona di
comfort esiste ed è per definizione confortevole chi glielo fa fare di
uscirne?”


La domanda è legittima. Ma prima di esplorarne le implicazioni chiariamoci le idee su che cosa sia la zona di comfort.


Prima di tutto non è un luogo fisico; la Comfort Zone è l’insieme di abitudini, atteggiamenti, riflessi e reazioni automatiche che costituiscono la nostra rassicurante routine. In Piemonte abbiamo
un modo di dire a tal proposito: “L’uma sempre fait parei”, abbiamo
sempre fatto così. Perchè cambiare?


La Confort Zone è la strada che fai ogni giorno per andare in
ufficio, ad esempio. Sarà la più veloce? La più scorrevole? La più
interessante? Chissà… ma cambiar strada è faticoso, anche solo dal punto
di vista dell’impegno di energie mentali; e noi umani siamo
sopravvissuti all’evoluzione proprio grazie alla nostra capacità di
economizzare energie. Per tacere il fatto che “Chi lascia la via vecchia
per la nuova…”


La Comfort Zone è la reazione che puoi avere di fronte a certe
difficoltà: “Non ce la posso fare”: ti autogiustifichi e continui a
patire. “Sono sfortunato”, “Il mio capo è un bastardo”, “È come tutte le
altre volte”, “I soliti raccomandati…” e così via.


La Comfort Zone è in agguato anche al chiosco delle piadine, dove ti
fermi per un pranzo veloce: “Mmm… speck e robiola… crema di carciofi e
fontina… crema di tartufi e radicchio… ma no, sto sul sicuro. Portami la
solita cotto e mozzarella”.


Per non parlare del “Glielo dico / Non glielo dico”. C’è una storia
interessante e agghiacciante al riguardo. Nell’inverno del 1982 un aereo
di linea della Florida Airlines, un Boeing 737, era in attesa di
decollare dall’aeroporto di Washington D.C. in una giornata gelida. La
pista era battuta dalla pioggia mista a neve, l’aeroporto era rimasto
chiuso sino a pochi istanti prima e tra poco il 737 avrebbe avuto
l’autorizzazione a decollare dopo un’attesa snervante e con un pesante
ritardo.


Due ore prima era stata eseguita la procedura di de – icing, la
rimozione del ghiaccio dalle ali dell’aereo, ma nel frattempo il
ghiaccio poteva essersi nuovamente formato. Prima che il comandante
iniziasse a far rullare il pesante aeromobile sulla pista il copilota
glielo fece timidamente notare, indicandogli anche le spia rosse che
indicavano il pericolo.


Il comandante non gli diede retta.


Il copilota borbottò tra sé e sé e non ebbe la fermezza o la
determinazione di insistere a voce alta contraddicendo il comandante.


Dalle registrazioni della scatola nera dell’aereo abbiamo la registrazione del dialogo in cabina.


Pilota: “Siamo in stallo. Stiamo andando giù”


Copilota: “Larry, precipitiamo!”


Pilota: “Lo so”


Sono le loro ultime parole. Il Boeing 737 della Florida Airlines non
riuscì a prendere quota e precipitò poco dopo nel fiume Potomac.
Nell’incidente persero la vita il comandante, il copilota e altre 76
persone, a bordo o a terra.


L’indagine successiva accertò che il pilota, stanco ed esasperato
dall’attesa snervante, aveva ormai deciso di decollare e non aveva
lasciato che le indicazioni del suo pilota lo distraessero da quanto
aveva pianificato. Dal canto suo il copilota non ebbe il coraggio di
dire al proprio capo “Stai sbagliando”. Nessuno dei due riuscì a uscire
dalla propria zona di comfort.


Grazie al cielo pochi di noi hanno la responsabilità di pilotare
grandi aerei, ma la storia del disastro del Potomac può insegnarci
qualcosa: che fuori dalla Comfort Zone si incontrano sicuramente fatiche
e rischi, ma probabilmente ci si imbatte anche in esperienze di vita
più significative, e in alcuni casi ci si salva la vita.


Uscire dalla zona di comfort è in relazione con la voglia e la
motivazione a crescere e con la qualità dell’esperienza della vita.


Chi desidera crescere, cambiare, evolvere, chi è attratto dal
cambiamento e lo affronta, chi sa tollerare l’incertezza, il
disequilibrio e la paura sa rischiare e accetta le situazioni che lo
spingono al di fuori della propria Comfort Zone.


Non è certo che fuori dalla propria Comfort Zone si stia meglio,
anzi: per definizione “fuori” è meno confortevole che dentro; ma finchè
non sperimenti ciò che c’è fuori non avrai la possibilità di apprendere,
di cambiare, di diventare qualcosa di più di prima.


C’è una forte relazione tra i percorsi di crescita personale e
l’uscire dalla propria Comfort Zone: crescere significa cambiare,
abbandonare certe abitudini (che sono confortevoli o rassicuranti) e
assumerne altre inizialmente scomode. Meditare pochi minuti ogni giorno,
fare le scale a piedi, iniziare una dieta, smettere di fumare,
dedicarsi agli altri una volta la settimana: sono passi fuori dalla
Confort Zone. Perchè? Per dare un senso più pieno e appagante alla
propria vita.


C’è altrettanta relazione fra il mio mestiere principale, il coaching
e la formazione manageriale, e la Comfort Zone di ciascuno dei miei
coachee: comunicare in maniera più efficace, gestire il proprio tempo
delegando e diminuendo il controllo, adottare nuovi metodi di lavoro
significa uscire dalla routine, esplorare, assumersi dei rischi. Perchè?
Per lavorare meglio, per stare meglio ed eventualmente aiutare a
lavorare meglio e stare meglio colleghi, capi collaboratori e clienti.


Per questo un paradossale ma utile consiglio per le persone
lamentose, demotivate o semplicemente stanche della propria situazione
può essere “Fà ogni giorno una cosa che ti fa paura; poi scrivi su un
quaderno che cosa hai imparato. Diventerai più forte e più coraggioso”.


Vuoi entrare a far parte del coraggioso tre per cento? Buon viaggio!


Quali sono le tue esperienze in tema di Comfort Zone? A me e ai lettori del blog farebbe piacere conoscerle.

Published 

Due o tre cose che possiamo imparare da un incidente aereo: La Comfort Zone | Nexus 2001

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